Fabio Dainotti, L’albergo dei morti, Manni Ed., 2023
In questo libro di Fabio Dainotti – del quale ho seguito il percorso espressivo lungo i decenni accumulati di scambi personali e letterari – ritrovo una sorta di auto-antologia delle sue corde tematico-affettive. Ma sono tentato di declinare il termine in auto-antologhia, con torsione etimologica verso logeion, di proscenio di teatro greco. Anche perché il testo si svolge in sequenze e personaggi del teatro memoriale dell’Autore, che dà forma a un reale e immaginario camposanto, coltivato nella sacralità affettuosa che (r)esiste e continua a curare il proprio sé con tale amoroso, incessante gesto. Ne scaturisce un impegno etico e di amore per la vita, che nella deriva epocale in cui siamo, diventa magistero che non smette di rilanciare il suo canto:
“Ed è l’angoscia – spossatezza estrema –/ come il mio corpo nella soda terra/ sostenuto// (C’era un triangolo azzurro./ Non c’erano ancora le stelle/ ma c’erano luci lontane)” (p.8).
Ne nasce un guizzo “di gabbiano che vola verso il mare/ aperto tra i piroscafi e fa male/ al cuore se lo vedi lontanare/ verso la libertà di vento e di sale, (p.9).
È un volo interconnesso all’imperativo di questo poièin, vissuto come destino e destinazione:
“Porta il poeta una condanna/ il volto che si volge lacrimando,/ sogna l’inesprimibile chimera,/ che lontana/ ama.” (p.119.
Per cui, se persino “Alla madre” (pp.18-19) dice “confesso, non so amarti tanto”, e ad ogni altra presenza ne “la stanchezza del mondo” canta in un’eco foscoliana “era già sera” (p.39), il proprio specchio si riaccende nella cura e nel culto della vita sul suo limitare:
“se fossi morta ti potrei tenere/ in un reliquiario di vetro;/…/ ma tu sei viva, non ti posso amare.” (ibidem).
È una poesia dunque che riprende la vita, nell’invisibile e nel sogno:
“Eri vicino, grande, il cranio roseo/ e la tinta decisa del tuo abito/ nuovo, di sartoria.// Così pieno di vita, allegro, in pace/ finalmente con me, trovavo strano/ che fossi tornato ancora vivo/ da dove dicono nessuno torni.” (p.87).
Così, proprio sul crinale tra vita e nonvita, tra sogno e veglia, tra visibile e invisibile, e proprio “Quando nero lo Scorpione/ avanza” e “oscura il sole” (p.156), la vita riesplode:
“Le barche si impregnano di sole/ sulla spiaggia d’avorio di Cetara./ Sono ebbre di vernice, rosse, azzurre/ e con le prue frementi il mare sognano;/ così le credi ferme e invece trepidano/ flessuose come ninfe siciliane.” (Virgiliana, p.92).
Per cui, anche il filologo del Soggetto Scrivente può commentare:
“Sul mio libro verde è cresciuto il muschio,/ La mia barba di filologo è diventata un mare/ dove si tuffano i pescatori di perle;/ affusolati rosa scendono nel blu,” (p.157). È l’ultima poesia, chiusa con un “Uh!” di sorriso autoironico, tra muschio resistente e profondità, nelle quali scovare gemme invisibili.
7 aprile 2024
Adam Vaccaro
Grazie di questa segnalazione.
Immetto questo riscontro e articolato commento in nome e per conto di Fabio Dainotti, a causa di suoi problemi tecnici.
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I) Adam Vaccaro parla giustamente di «corde tematico-affettive». In effetti tra i temi ricorrenti ci sono gli affetti, soprattutto familiari. Anche la figura femminile è presente ma nei confronti delle figure di donna si verifica il fenomeno della mummificazione; è dalla donna infatti che proviene il maggior pericolo di irruzione destabilizzante della vitalità. La donna è spesso presente, ma come fotografia, come quadro: in questo modo si può parlare d’amore, ma a patto che l’amore sia allontanato nel passato, diventando qualcosa da raccontare. Anche in quelli che sono stati definiti, da Giuseppe Pontiggia, canzonieri d’amore, la donna è presente di solito come assenza, nella memoria. A volte si tratta addirittura di un personaggio in parte immaginario.
II) Aggiunge Adam: “il testo si svolge in sequenze e personaggi del teatro memoriale dell’autore, che dà forma a un reale e immaginario camposanto”.
Alla mia poesia si può applicare la formula poetica della memoria, consegnata al riemergere involontario dei ricordi legati alla terra natia e alla patria di adozione. Emergono le immagini di personaggi e oggetti: emarginati, gabbiani, chiese. Tutto un mondo periferico. Penso che la mia produzione sia riconducibile a una linea realista, quella di Saba e Penna.
III) Cito sempre dalla illuminante nota di Vaccaro: “Ne scaturisce un impegno etico e di amore per la vita”
A proposito di impegno etico, secondo me dovere di un poeta è quello di piacere, e per piacere deve essere sincero. Non ho mai voluto pagare un tributo alle poetiche di moda, che diventano poi inevitabilmente maniera. Se esiste un cambiamento, ben venga ma occorre poi assorbire in una nuova classicità quel cambiamento e rinverginare così una poesia che altrimenti diverrebbe asfittica. Credo che la poesia abbia funzione di diletto e di elevazione; per mezz’ora dice Leopardi. Invece io penso ai tempi lunghi, cioè elevazione dell’animo quindi del sociale essendo ognuno inserito nella Società, Ma non deve essere il trombettiere di nessuno, dice Vittorini, non deve farlo apposta (Pascoli). Spesso parlo di derelitti, di omini, di perdenti, che hanno una loro grandezza e autenticità e dò loro voce introducendoli a parlare direttamente in una poesia a volte teatralizzata.
IV) Il critico conclude la sua magistrale disamina parlando di “profondità”, nelle quali scovare gemme invisibili”
Infatti nella cosiddetta contredanse della creazione letteraria, la “questione se sia a caldo o a freddo l’ispirazione” che nasca da un’urgenza comunicativa che vuole cercare sbocco in parole, oppure che nasca dalla suggestione di una parola che poi si caricherà di tutti i grovigli del cuore; la parola risulta in ogni caso scavata nella mia vita, come scrive Ungaretti. Andando in profondità, verticalmente, incontrerà i succhi contenuti nell’humus, succhi che sono di tutti gli uomini.