LA POESIA DEL POST-CONTEMPORANEO
Giorgio Linguaglossa
Giuliana Lucchini Non morire mai Edizioni, Roma Congressi, 2011
È un infausto destino della poesia contemporanea quello di essere costretta a muoversi all’interno di una scrittura tellurizzata, decentrata, bucherellata, spezzettata, psicosomatica, idiosincratica, persoanalitica, una sorta di periferia dei linguaggi peristaltici, mobili, dis-metrici, dis-tassici che nuotano in una geografia-topografia di rovine (lessematiche, semantiche, significazioniste), di scarti, esibendo (o dissimulando) ed esigendo le qualità (da toponomastica) del rhétoricoeur impigliato nella rete delle proprie paronomasie, delle proprie metonimie, delle proprie anafore e degli stacchi; dei riporti lessematici dai linguaggi strumentali a quelli della modellizzazione secondaria, tentando di determinare corto circuiti e contro corto circuiti fra suono e senso, suono e suono, senso e senso, aggiungendo rovina lessematica a rovina fonosimbolica e tonosimbolica.
Ciò che rimane oggi del linguaggio poetico del Novecento è quello che resta di una centrale nucleare dopo la sua esplosione: una miriade di isotopi radioattivi che continueranno ad emettere venefica radioattività per decine di migliaia di anni.
Nel suo percorso verso la radura della perdita e della bancarotta del senso, la romana Giuliana Lucchini è così costretta ad operare una accelerazione (o una brusca frenata) della dissipazione delle strutture portanti del significato come si erano configurate nel Novecento. Con tutta la congerie di contraddizioni non risolte che stavano al fondo della questione di quale linguaggio poetico eleggere: quello del riformismo sereniano o quello dello sperimentalismo endogeno? – La Lucchini decide così di risparmiare, economizzare proprio nel momento in cui è intenta alla semina, alla disseminazione di quello che resta del significante (perché qui è proprio il significante il veicolo «padre») e del significato; la Lucchini economizza, e fa bene, sul significato, sui ritagli, sui frustoli, sulle rovine del senso, sugli ipogrammi e sui paragrammi, sui frantumi, sui sintagmi lessicali. Tenta di aprirsi una via attraverso le trincee dei linguaggi isotopici e analogici verso la Cosa, das Ding, utilizzando una accurata strategia di disseminazione di campi minati posti sul terreno dei legamenti sintattici. Insomma, la Lucchini va da ciò che resta dei legamenti sintattici e dis-metrici del Novecento, con l’aggiunta di una poderosa cura dimagrante dei legamenti sintattici, alla ricostituzione di un corpo già martoriato e ferito a morte: («Prendemmo allora carta e penna / e disegnammo la quiete a modello / di un’idea: pietra e arca, / la vetta / dopo il diluvio»).
Ed ecco l’invocazione alla Musa (qui non c’è alcuna nostalgia della pienezza di senso del tempo andato o del tempo perduto e poi ritrovato, non c’è alcuna nostalgia delle origini, anzi, c’è qui un oblio della questione delle origini): questa cosa misteriosa che è stato il rapporto con la «musa» attraversa in diagonale la scrittura della Lucchini.
La poetessa romana tenta di sopperire alla mancanza di senso e alla mancanza dell’Origine con la disseminazione del dis-senso e con una vertiginosa contrazione (selezione) dei «materiali» (una sorta di miniera di scorie e di isotopi linguistici radioattivi), così come li ritrova dopo il diluvio (anzi la bufera, il maremoto, il terremoto!) del secolo sperimentale delle avanguardie e delle post-avanguardie e della lirica intonsa (alla Bertolucci) di chi non ne voleva sapere (forse a ragione) di fare i conti con il Moderno.
E della fine del Novecento che ha visto l’inizio della rivoluzione cibernetico-mediatica? Che ne è rimasto di quel linguaggio dissestato e deflagrato dello sperimentalismo e del lirismo ingenuo? Nulla. Oggi, tutto quello che può fare un poeta come la Lucchini è miniaturizzare i circuiti ideologici e linguistici del vecchio Novecento, rovistare (coscienziosamente), stipare nelle scorie, nelle sintassi (distassiche), nelle linearità perdute (e combuste) dell’antico linguaggio poetico novecentesco, che sta come una discarica a cielo aperto con i suoi fetori e i suoi umori maleodoranti; può solo sperare nelle benefiche aerazioni di quel composto chimico sperando che il tutto non venga destinato in quelle «discariche» che il Novecento ha istituzionalizzato quando, un tempo lontanissimo, teorizzò l’equazione lirica=intuizione, Museo=mercato, avanguardia=Museo.
E allora a ragione un poeta del nostro tempo come Aldo Nove quando si parla di Museo o di Avanguardia corre a prendere la pistola ad acqua e inchiostro e sporcificare le pagine intonse dei lirici acrilici alla Umberto Piersanti!
Oggi, nelle mutate condizioni dell’universo mediatico, nella realtà del «terrestre digitale» che cosa può fare una poesia così elitaria e lucidata come quella della Lucchini? Nelle condizioni odierne non soltanto è «terminale» il cosiddetto «realismo» ma è «terminale» anche qualsiasi proposta che si affranchi dal «realismo» o che si appelli all’ironico quale strumento di indagine del principio di realtà È terminale il discorso sul «terminale». È questo il guaio. Se è terminale l’«oggetto», figurarsi il «soggetto»! Non saprei proprio indicare alla Lucchini come si esca dalla testuggine stilistico-epigonica del Novecento. Fatto sta che la Lucchini ci sta come dentro ad un tegumento, come dentro un imbuto. Con il collo sempre più stretto nel laccio delle sue contraddizioni.
Così, oggi, in tempi di stagnazione stilistica e di dis-economie, di caduta tendenziale del saggio di profitto stilistico, di deficit del Pil della forma-poesia, tutto quello che può fare un poeta del Dopo il Moderno è, probabilmente operare un risparmio spietato sui propri mezzi di locomozione linguistica e sul carburante da mettere nel serbatoio. Perché non si tratta più di andare in salita né in discesa, né con l’utilitaria né in bicicletta ma di precipitare (con i sandali e i tacchi a spillo) dentro un imbuto rovesciato, nella voragine di una bancarotta del senso e del contro senso: di un debito pubblico del sistema-poesia in perenne stato comatoso e in vertiginosa discesa. In vertiginosa fibrillazione.
«Era vecchio?»
«Sì. Si piegò sulla linea tranviaria. Il corpo
ad angolo retto».
«In ginocchio?»
«Sì, proprio sulla sbarra doppia
del ferro».
«E il convoglio arrivava?»
«Arrivava. il numero 2. da Piazza Mancini».
«E il suo cane cosa faceva»
«Dal guinzaglio lo tirava».
«Succube?»
«Rassegnato».
«E lui, non si rialzava?»
«Il capo chino. Non ne aveva
le forze».
Maurizio Soldini La porta sul mondo Borgomanero, Ed. Giuliano Ladolfi, 2011
La fusione con il referente è spezzata: è il linguaggio dell’ipermarket quello che ci sovrasta e ci ingloba. Il piacevole libro di Maurizio Soldini vuole essere una «porta (aperta) sul mondo», dove con il termine «mondo» si intende il linguaggio che rimanda a se stesso attraverso la «messa in vetrina» dei segni significanti i quali a loro volta rimandano ad altri segni significati: una sorta di eterno gioco dei segni che si riflettono e si moltiplicano all’infinito in un infinito inseguimento del reale. E il reale? Dov’è il reale? Semplicemente, non c’è, c’è l’iperreale: una catena di significanti aperta all’infinito. Una catena di significanti che si è autonomizzata ed è diventata indipendente dal segno-significato. La messa in scena autoderisoria di Soldini è che la saussuriana «arbitrarietà del segno» pone l’uomo (il transitante, il visitatore, il cliente, il curioso, il videns etc.) fuori dal suo centro, lo de-centra, lo de-cerebra e lo conserva in qualità di fruitore-risparmiatore, lo mette nel frigorifero dei clienti colti dalla pulsione all’acquisto, dall’ossessione della visione del segno-significato, che semplicemente non c’è perché è stato cancellato dall’iperreale che mette in scena la visione del «reale». Ciò che resta non lo fondano i poeti (con buona pace di Holderlin) ma l’ipermarket. E il viaggio autoderisorio del protagonista attraverso gli scaffali dell’emporio è la replica autoderisoria del viaggio di Ulisse attraverso il Mediterraneo.
Riprendo il mio percorso esistenziale/ Approdo allora dentro Auchan./ Bel porto finalmente, almeno sembra./ Terra terra terra… E invece dico/ Frutta frutta frutta… e mele pere/ Arance clementini con banane/ Noci mandorle insieme alle nocciole/ Fichi (secchi) datteri insalate/ Tutte bene accatastate/ Piramidi lucenti naturali Che mi ridanno fiato./ Per non parlare dell’odor del pane.
È il processo della significazione, e quindi del senso, che non è più attingibile nelle condizioni dell’iperreale; è quest’ultimo che detta al soggetto le regole definitorie delle retorizzazioni (e non più viceversa): il «soggetto» resta come privilegio «ottico», turistico, gastronomico, visitatore di questi musei dell’ipermoderno dove si trovano i Mammuth di quell’epoca dell’ilozoico nella quale ancora si scrivevano le poesie. (Davvero derisoria fine della neoavanguardia sanguinetiana che teorizzava il museo come sua finalità); adesso restano gli archi di trionfo della civiltà tecnologico-tele-mediatica dove passano, non più gli eserciti vittoriosi del vecchio imperialismo, ma i modernissimi eserciti dei segni significati che denotano, e depistano e dis-orientano il «soggetto» (non più «soggetto») che non intenda subire passivamente il dis-possessamento del «reale».
Il locutore che ha cessato di essere il fondatore del «reale» si è scoperto porta-voce: ma porta-voce di che? Un «soggetto» ottico che contempla l’iper-«reale» telegenicamente orientato! È da questo disagio dell’«io» che muove l’analisi poetica di Maurizio Soldini dove la coscienza poetica dell’homo videns, la coscienza ipercomplessa del visitatore, del turista (il reale ridotto a spettacolo turistico) che guarda traboccare le merci dall’ordinata orditura delle scaffalature, diventa coscienza paralizzata dell’homo videns.
Ma mi chiedo se la poesia possa essere solo ricerca formale del senso o piuttosto è vero il contrario e cioè è il senso che determina ‘la forma’?
Vorrebbe gentilmente Giorgio Linguaglossa comparare la poesia che vi aggiungo alle due che vengono analizzate in questo articolo? Grazie.
Ecco la mia poesia:
In questo giorno che di sé inonda
tutto il mare e tutta l’estate,
si disgela la tinozza dell’eterno.
Qui, sotto il mio segreto sguardo.
Le cose, al largo, si raccontano in luce
e golfi di luci, vibranti e deliranti.
L’armonia è nell’attimo che, pur brivido,
sembra fermarsi a contemplare.
– Severo diapason della mente
che come treno al palo
osserva, accoglie, registra.
Ed è l’eterno che, uscito in strada da me,
da te… da tutti… qui, ora,
si lascia cogliere nel suo abito di fuoco
del mezzogiorno estivo.
– Ferro rovente del fabbro che batte
sull’incudine. Cuore orfico dell’etere
pulsante in ogni fibra a modellare il cielo
e la terra. Sagace fucina d’un forte narcisistico
specchiarsi. Trasparenza e agio del mondo
liberatosi dalla culla del nulla e
rivelatosi in noi.
E specchiandoci… tutti a bere, anche Dio,
l’intenso fulgore del giorno quando l’anima
e le cose
cantano l’inno-ferita dell’esistenza.
è sempre un piacere sottile leggere le tue opinioni ( critiche? ipercritiche?) su nuovi testi, soprattutto se gli stessi sono così imbevuti di quotidianità,come mi sembra di capire, spero senza errore. Non ho letto i libri di Lucchini e Soldini, non ho quindi eventuali argomenti da contrapporre,ma tu ne dai una idea precisa così precisa che mi impressiona. soprattutto mi impressiona l’invadenza,la tracimazione di una realtà quotidiana,( minimale?) che rischia di spezzare un legame sottile e delicato, quello tra il poeta e la sua anima, passatemi il termine,anche se appare antico.Intendo dire che la poesia della cosa vivente, ,che diventa originale,se vista con occhi diversi, qui mi pare sopraffatta dalla prepotenza della medesima (cosa vivente)che rischia di spegnere ogni luce necessaria a generare poesia. Forse è proprio quello che Linguaglossa definisce iperrealismo, un genere che spesso fagocita sè stesso. I quadri di Hopper sono affascinanti, precisi e ben disegnati,l’unica nota personale di fondo è l’uso del colore,che indica i suoi sentimenti non altrimenti espressi,ma quella iperrealtà non mi fa volare,non mi cambia. L’usura è una piaga sociale, è un reato, è un orrore, ma nelle mani di Pound è diventata un’invettiva visionaria, quella dei ” Canti pisani”… e se Wislawa Szymborska parla di un bambino esordisce “dunque è sua madre. Questa piccola donna.Artefice dagli occhi grigi. La barca su cui,anni fa, lui approdò alla riva. E’ da lei che si è tirato fuori nel mondo, nella non-eternità….” e così via mi dispiace non la posso trascrivere tutta. Oppure nella lirica “Decapitazione” “décolleté deriva da decollo,decollo,ovvero taglio il collo. La regina di Scozia Maria Stuarda salì sul patibolo con la camicia adatta. Una camicia scollata e rossa come una emorragia”…… e continua……parla di cose di tutti i giorni, ma come !…..è questo il problema oggi ? è la rottura del rapporto tra interno ed esterno ? questo vuol dire Linguaglossa ?
Carissimo Giorgio,
sono sempre molto contento di leggere le tue arguzie critiche e condivido pienamente la tua analisi spietata sulla poesia oggi, sui poeti d’oggi e sulla stagnazione come controcanto alla iper produzione.
Detto questo elogio, ho letto anche con piacere queste due note a Giuliana Lucchini e Soldini (chirurgo o medico quest’ultimo molto impegnato con AVVENIRE, se non ricordo male. Ma è la parte finale della nota a Lucchini che mi ha fatto sobbalzare. In SALUMIDA è presente tutto ciò che qui in questa ultima parte tu affermi. Ricordi?
“Così, oggi, in tempi di stagnazione stilistica e di dis-economie, di caduta tendenziale del saggio di profitto stilistico, di deficit del Pil della forma-poesia, tutto quello che può fare un poeta del Dopo il Moderno è, probabilmente operare un risparmio spietato sui propri mezzi di locomozione linguistica e sul carburante da mettere nel serbatoio. Perché non si tratta più di andare in salita né in discesa, né con l’utilitaria né in bicicletta ma di precipitare (con i sandali e i tacchi a spillo) dentro un imbuto rovesciato, nella voragine di una bancarotta del senso e del contro senso: di un debito pubblico del sistema-poesia in perenne stato comatoso e in vertiginosa discesa. In vertiginosa fibrillazione.”
Busso alla porta e si apre uno spioncino, da dentro un lumicino e gli occhi sulla graticola.
Buona giornata
Giuseppe Panetta
caro Giorgio, volevo dirti che una delle cose che noto con sconcerto, ma che in effetti è solo prodotto del nostro oggi, è la caduta totale delle gerarchie nell’istituto letterario della poesia, per cui, ad esempio, su Facebook, una qualsiasi ragazzina poetessa, magari anche brava, nel diritto dell’uso dei suoi linguaggi, tratta ”a pesci in faccia”tal il critico/a, magari zittendolo o deridendolo, come ho visto fare, senza riconoscere a lui o a lei alcuna autorità. Magari quello stesso critico essendo docente nel suo ateneo. Quando ero ventenne, negli anni Ottanta, e studentessa, e aspirante poetessa, c’era amicizia e familiarità con i critici, benevolenza loro, e nostra ammirazione. Pare si sia giunti velocemente a un tempo nuovo che rende quello nostro un’ epoca lontana come il tempo in cui Maria di Nazareth si inventò la storia dell’incontro con l’angelo, che la eleggeva donna tra le donne, poetessa tra le poetesse della propria autobiografia.
Questo azzeramento delle gerarchie come lo interpreti, positivo o negativo?
PS A proposito della poesia delle rovine,che ne dici de La poesia delle Rose di Fortini?
Un abbraccio.
lo spartiacque del 1950
«Senza dubbio la nuova poesia non ripeterà le esperienze degli ultimi cinquant’anni. Sono irripetibili. E sono ancora sommersi i mondi poetici che attendono di essere scoperti da un adolescente il cui viso sicuramente non vedremo mai. Ma forse non sarà del tutto temerario descrivere dall’esterno alcune circostanze con le quali i nuovi poeti si confrontano. Una è la perdita dell’immagine del mondo; l’altra, la comparsa di un vocabolario universale, composto da segni attivi: la tecnica; e un’altra ancora, la crisi dei significati».
Sono parole di Octavio Paz, del 1956, che ritengo oltremodo valide oggi, a distanza di più di sessant’anni dalla loro stesura. Sì, anch’io ritengo che non siano più ripercorribili le esperienze compiute nella seconda metà del Novecento, il secolo che si è concluso richiede una nostra riflessione, non possiamo archiviarlo con superficialità. E mi chiedo: che cosa ci lascia in eredità il Novecento ora che il suo profilo si allontana sempre più velocemente dalla nostra vista? Per rispondere a questa domanda partirò dalla poesia degli autori nati a ridosso dello spartiacque del 1950.
In Italia avviene che presso i poeti nati, grosso modo, negli anni precedenti e, comunque, intorno al 1950, la scrittura poetica resti ancora agganciata alla sella teurgica della tradizione e si riscatti non grazie al télos ma per la forza-lavoro che è costata. Quel che è certo è che, negli anni della maturità di quei poeti, il discorso poetico fondato sul polinomio proposizionale e sulla scatola acustica e morfologica della tradizione, finirà col trovarsi colpito da questa crisi della Ragione poetica. Il discorso poetico suasorio-imbonitorio che punta al significante viene ad essere sostituito, presso i poeti nati prima o intorno al 1950, da un discorso sull’essenza della scrittura, sull’identità auto-dis-locantesi dell’«io»: interi generi subiscono una eclissi, il genere romanzo in versi subirà un oscuramento, e così il pastiche. Il discorso ondulatorio-suasorio del tipo della poesia del tardo Bertolucci de La capanna indiana diventerà sempre più un problema. La poesia è adesso impegnata a rivelare quel «vuoto di senso quella frattura», dirà Cesare Viviani», l’ «invisibile» e l’«indicibile»:
la poesia è miracolo non tanto perché conserva l’energia nel tempo – lo stesso fuoco che risorge sulla pagina -, quanto perché rivela quel vuoto di senso, quella frattura, quell’evento imprevedibile e inspiegabile che è la struttura fondamentale dell’esistenza. La poesia, come ogni miracolo è la vita, mentre il linguaggio quotidiano è la distanza di difesa dal fuoco dell’esistenza. – {Subentra l’idea che la poesia non si forma} nella relazione con l’esterno, con il quotidiano, con il sociale, con il sacro. Ma tutte queste realtà se intese come leggibili sono magnifici bocconcini, ordinarie acquisizioni che non formano affatto e si trasformano solo in una piccola ma ingombrante ideologia. Solo in quanto illeggibili queste realtà sono formative. Insomma, detto in due parole: è la perdita che forma la scrittura poetica, non è mai l’acquisizione. (…) la poesia è scelta incompiuta, senza ritorno, insostituibile, immutabile: è la dimensione della mancanza, della perdita, così difficile da accettare per l’intelligenza dialettica, per l’intelletto critico, una mancanza, una perdita senza possibilità di intervento o rimedio, senza possibilità di negazione o rimozione
Cara Erminia, occorre ritornare a leggere la splendida poesia sulla “rosa” di Fortini… occorre ritornare a pensare il “negativo” per convertirlo in “positivo”… occorre cambiare le cose ben al di là del giudizio estetico…
Giorgio Linguaglossa
proust?
Tendenzialmente la poesia è stata messa ai margini, forse si è messa ai margini da sola con l’autolesionismo tipico di molti poeti e di molti sedicenti poeti (la scrittura psicosomatica, salvo rarissimi casi, è un film horror replicato un po’ troppo spesso). Per non parlare della scrittura in rete, se sottraiamo al beneficio della maggior visibilità di belle penne, altrimenti inibite dal farsi conoscere in altro modo, il danno della marmellata scaduta che sono le molte congreghe sui siti appositamente dedicati, il bilancio rimane ampiamente negativo. Sotto questo aspetto anche il commento boomerang di Matteo Bonsante diventa emblema di quanto affermo. Non conosco nella fattispecie i due autori in oggetto, ma una frase dell’articolo ben si adatta a entrambi gli autori : “Il locutore che ha cessato di essere il fondatore del “reale” si è scoperto porta-voce: ma porta-voce di che?” Forse, citando Giorgio Linguaglossa, del profondo rosso “di un debito pubblico del sistema-poesia in perenne stato comatoso”. Detto questo in tutta onestà, proverò a procurarmi i libri di entrambi questi autori, sempre che sia possibile.
Flavio Almerighi, sito internet http://amArgine.splinder.com, e-mail f.almerighi@libero.it
Caro Matteo Bonsante
… purtroppo sono costretto a non poter accogliere il tuo invito a commentare la tua poesia; la ragione è semplice: posso tentare un discorso critico di attraversamento del testo soltanto quando ho davanti un libro compiuto (e spesso non è sufficiente neanche un libro ma occorre considerare un arco temporale almeno ventennale di un autore così come scandito dai suoi libri).
Fermo restanto che oggi non esiste più da almeno tre decenni un critico di poesia: gli ultimi sono stati Pasolini, Fortini, Sereni e Raboni… io penso di essere un sopravvissuto, una specie di ircocervo che si nutre delle foglie e dei rami delle foreste dell’ilozoico… fatto sta che oggi le foreste sono cambiate e con esse sono cambiate anche le specie vegetali… ritengo che l’unica possibilità per un “critico” (adoperiamo ancora per un’ultima volta questo termine dell’ilozoico!) di leggere un libro di poesia è di attraversarlo a piedi un po’ come fa un pedone quando attraversa una strada sulle strisce pedonali, guardando attentamente a sinistra e a destra per vedere se non c’è qualche automobile che sopraggiunge a tutta velocità… voglio dire che bisogna leggere in fretta, e con la mano sinistra, mentre l’occhio già guarda l’ora sull’orologio…
Io sono (molto semplicemente) un contemporaneo che ha un orologio che segna un’ora che non coincide quasi mai con quello degli altri contemporanei…
Giorgio Linguaglossa
E’ di una rara bellezza leggere chi ama leggere, come Giorgio Linguaglossa fa e non nasconde, ma espone e non censura e non teme(essere censurato),spero
il timore sui nati dopo gli anni cinquanta non colpisca di amnesia e impotenza i testimoni,che sono tanti e ricchi, spero anche, ma è una preghierina sottovoce il nichilismo-finto minimalismo attuale, già morente morirà di congestione bronchiale, per esiguità, ma è certo noi non vedremo il viso
dell’adolescente poeta (come Arturo?)coevo al tempo che verrà;lo leggeremo forse infine da un al di qua di iperuraniche trasmutazioni umane, dopo i meticciati di techné e oralità e morte!? non migliori noi, ma…
maria Pia Quintavalla
Cara Erminia Passannanti,
… un giorno, siamo circa a fine 1998, spedii a Giovanni Raboni una mia raccolta per una eventuale pubblicazione. Il poeta milanese mi rispose a stretto giro di posta con una lettera che conservo in qualche cassetto, scrivendomi che la mia raccolta meritava «ampiamente» la pubblicazione presso la Mondadori o la Marsilio, ma purtroppo lui aveva abbandonato la direzione delle collane di poesia dei due editori per motivi di salute… dopo qualche complimento alla mia scrittura, Raboni scriveva «che aveva comunque delle riserve su quel tipo di scrittura».
Poco tempo dopo, purtroppo, Raboni moriva. Avevo già pronta la lettera nella quale lo ringraziavo dei gentili complimenti ma che ero più interessato a conoscere la natura e le ragioni di quelle «riserve» alle quali aveva accennato il poeta milanese.
Tutto qui. Io allora non ero proprio nessuno (e non lo sono ancora oggi), Raboni non conosceva niente di me tranne alcuni numeri di “Poiesis” che gli inviavo (ma non so se lui la leggesse).
Io invece vedo che oggi i (presunti) poeti sono soltanto interessato a quei critici che parlano bene dei loro libri… chiunque abbozza un giudizio non favorevole viene subito evitato. Si vuole, da parte degli aspiranti poeti, tutto e subito: elogi e promemoria. recentemente ho scritto una recensione al libro di Amedeo Anelli «Contrapunctus» nella quale esprimevo alcune considerazioni critiche. Il risultato è stato che il Sig. Anelli se l’è presa a male, ha letto le mie considerazioni come una stroncatura quando invece le mie erano soltanto delle considerazioni «critiche». Insomma, voglio dire che siamo talmetne abituati alla simil-poesia che anche un letterato esperto come Anelli preferisce ricevere i giudizi della simil-critica piuttosto che quelli di una critica vera e propria, cioè non inficiata da retropensieri e buonismi, se non opportunismi.
Un poeta molto noto recentemente mi ha detto: «ma chi te lo fa fare a fare delle vere recensioni? Falle tutte positive, anzi, intona dei peana così non ti farai tutti quei nemici giurati di cui abbondi…».
Parole sante. Fatto sta che io ritengo invece che ognuno debba scrivere soltanto quello che pensa, e non altro. Ci deve essere un patto di onestà e di riconoscibilità tra autore, critico e pubblico, pena la messa in scena di parafrasi e di prposizionalismi pseudo-critici che delegittimano la stessa attività critica.
Giorgio Linguaglossa
Grazie della risposta, Giorgio. Sono abbastanza vecchia per avere vissuto le stesse esperienze tue.
🙂