Forum sul libro di
GIORGIO LINGUAGLOSSA, Dalla lirica al discorso poetico – Storia della poesia italiana (1945-2010), Roma, Edilet, 2011
Dante Maffia
Gli interventi sporadici sulla poesia italiana dal dopoguerra ai giorni nostri si sono succeduti con una cadenza e una frammentarietà che hanno creato molta confusione ingenerando l’illusione che tutti i gruppetti organizzati dai furbetti dei vari quartieri fossero diventati un pezzo di storia rilevante e da cui non si può prescindere. In realtà le operazioni compiute, quasi tutte, non solo hanno il difetto della faziosità, ma mancano dello sguardo complessivo, quello che permette la visione dell’insieme in una dinamica di scambio e di rifiuto, di scontro e di accettazione, di evoluzione e di involuzione. Anche alcune antologie hanno contribuito all’ipertrofia di autori inesistenti sul piano poetico, ma potenti perché funzionari di grandi case editrici o baroni di università prestigiose. Si pensi a quella curata da Krumm, a quella quasi leghista quasi lombarda curata da Cucchi e Giovanardi, a quella ridicola curata da Daniele Piccini.
Scambi di favori spesso stanno alla base di scelte che tali non sono e i signori curatori non si curano di dare uno sguardo all’editoria minore, di provincia, con il pretesto, questa volta vero, che ormai si pubblica troppo, come se non ci fossero i mezzi per scrutare e verificare nell’immenso mare gli infiniti poeti. Certo, ci vogliono pazienza, amore, passione, professionalità per distillare la valanga di testi che ogni giorno vedono la luce, ma la storia, ormai è un fatto acquisito dalla storiografia di tutto il mondo, non si fa più soltanto sui profili di Mazzini o di Garibaldi, ma “rovistando” nella microstoria, senza, ovviamente trascurare il “prodotto” offerto dalle sigle imperanti e disinvoltamente poi realizzare antologie o profili letterari sulla base dei volumi editi soltanto da Mondadori, da Einaudi, da Rizzoli e da Garzanti e magari non affacciarsi nemmeno nel catalogo non dico di Manni, di Lepisma, di Carabba, di Scettro del Re, di LietoColle, di Book, di Interlinea, di Tracce, di Città del Sole, di puntoacapo, di Genesi, di Edilet, di Empiria, di Maria Pacini Fazzi, di Azimut, di Joker, di Rubbettino, ma nemmeno di Guanda, di Scheiwiller, di Crocetti, di Marsilio, di Laterza, di Passigli, di Casagrande, di Aragno. È talmente tanta la iattanza, la sopraffazione, l’arroganza che ormai, se si gestisce un qualche potere di peso nelle amministrazioni politiche, nella finanza, nelle università o nell’editoria e, in genere, nella industria, che diventa un diritto uscire nello “Specchio” o nella bianca di Einaudi, nella collana di Garzanti. A che cosa è dovuta questa fregola di non poeti a voler pubblicare e a volersi sentire parte di un universo che non conta? Mi piacerebbe conoscere il parere di antropologi e di sociologi al riguardo…
Davanti a un quadro così ricco e frastagliato, al cospetto di violenze continue che i vari Cucchi compiono nei riguardi della poesia difendendo soltanto, come diceva Palazzeschi, i portatori sani di stitichezza poetica (in alcune sue recensioni Cucchi a volte ha dato avvertimento al poeta di guardarsi dalla dovizia espressiva e dalla passione), Giorgio Linguaglossa, dopo centinaia di interventi giornalistici e dopo alcuni libri che hanno cercato di fare il punto su che cosa sta veramente accadendo, scrive una storia della poesia degli ultimi sessantacinque anni. Spartiacque arbitrario e quindi discutibile anche questo, ma da qualcosa bisognava partire per focalizzare una situazione e una condizione ormai divenute insostenibili. Davvero ci vogliono ancora far credere che Majorino sia un poeta, che Zanzotto non sia un manierista vuoto e inutile, che D’Elia non sia un modestissimo epigono di Pasolini, che Zeichen non sia un cabarettista e che Cucchi non sia il furbo alchimista di un piccolo giallo inventato per la moda del momento e che inganna anche Linguaglossa tanto è vero che dedica al Disperso almeno sei pagine. Comunque si deduce, da ciò che afferma Linguaglossa, che se questi signori non facessero i giornalisti o non gestissero un potere redazionale, o altro tipo di potere, nessuno li avrebbe mai pubblicati.
Il metodo di Linguaglossa non è una rigida griglia entro cui devono entrare i poeti per essere presi in considerazione, è come se egli badasse alla qualità dei testi e soprattutto alle esperienze che hanno determinato gusti e scelte. Si tratta di un metodo che spinge a una sorta di manicheismo, non sempre condivisibile, che non ammette repliche alle affermazioni frutto di convinzioni sorte da letture filosofiche e sociologiche e che semina molte perplessità a cominciare dalla centralità assegnata a Franco Fortini, ad Ennio Flaiano e ad Angelo Maria Ripellino individuati come il perno di un’officina che sa cogliere i mutamenti in atto e produrre istanze innovative di carattere universale non solo sul piano formale e stilistico. Anche l’importanza assegnata a Helle Busacca, a Maria Marchesi, e a Maria Rosaria Madonna farà molto parlare.
Linguaglossa inventa delle sue categorie per stigmatizzare momenti particolari di una sua città di poeti che a volte è troppo abitata e altre volte è quasi vuota e diventa spesso un’acrobazia seguirlo per gli anfratti delle questioni del modernismo, del riflusso degli anni ottanta, dell’esaurimento del post-simbolismo. Tuttavia ha il coraggio di affrontare le questioni cruciali della poesia degli ultimi decenni con una visione che si può anche non condividere, ma che mette a fuoco le verità più lampanti e più scottanti del nostro tempo troppo ammalato di dirigentismo. Non solo, nell’ultima parte offre un serto di nomi che scrivono finalmente fuori dalle esigenze della moda imposta dal minimalismo e dal resocontismo banale e ovvio. Una scommessa che potrà vincere o perdere, certo non “impone” maestri preconfezionati, non afferma apoditticamente la priorità di scuole che devono per forza dominare. Registra il fare in atto con una conoscenza vasta del territorio poetico e con un intuito che percepisce le fibrillazioni in divenire.
Credo che da questo libro bisognerà ripartire per fare luce, al più presto, sulle reali esigenze della poesia e su chi sono veramente i poeti che hanno saputo interpretare la sensibilità del nostro tempo. Alfonso Berardinelli ci ha provato anni fa dicendo pane al pane e vino al vino, ma poi il fascino del potere lo ha riafferrato e ha fatto marcia indietro.
Le chiacchiere sulla poesia si sono sempre disperse nel nulla col trascorrere degli anni e sono rimasti i testi a parlare, a testimoniare di una civiltà e di una sensibilità che travalicano la storia e la rendono momento perenne. Certo i giochi di prestigio vuoti e contraddittori di un Franco Loi, che Linguaglossa cita soltanto di sfuggita ma che ha prodotto molta confusione nel panorama della poesia degli ultimi decenni, quelli di Edoardo Cacciatore, della Insana, di De Signoribus, di Ballerini o le scopiazzature di Milo De Angelis non andranno da nessuna parte. Il tempo è galantuomo, ma critici coraggiosi come Linguaglossa aprono il varco alla chiarezza storiografica e a un dibattito che mi auguro leale, sempre legato ai testi, senza diventare una palestra teorica di buone intenzioni o di assiomi insulsi.
“… Ecco di che stupirci: abbiamo molti più poeti che giudici e interpreti di poesia. E’ più facile farla che riconoscerla. Fino a un certo basso livello, la si può giudicare in base ai precetti e al mestiere. Ma la buona, la somma, la divina, è al di sopra delle regole e della ragione. Chiunque ne discerna la bellezza con sguardo fermo e tranquillo, non la vede più di quanto veda lo splendore d’un lampo. Essa non seduce il nostro giudizio; lo rapisce e lo devasta”.
Commento di Laura Canciani 21 Luglio 2011 alle 09:03
…mi sembra che il perno centrale attorno al quale ruota tutta la riflessione su 65 anni di storia della poesia italiana sia indicato nel titolo del primo capitolo: «”La «rivoluzione inconsapevole” quale paradigma implicito della poesia italiana del Novecento»; da questo punto, da questo nodo, ne discendono tutte le conseguenze negative e quelle (poche) positive (se vogliamo), e cioè: il problema della «riforma moderata» introdotta da Sereni e, in minor misura da Giovanni Giudici, l’abbassamento del pentagramma linguistico al livello di un monologismo “parlato” che mimava il «parlato» senza mai poterlo raggiungere; in secondo luogo, il problema dello «sperimentalismo professionale», vero e proprio concetto acritico adottato da “maestri” e innumerevoli epigoni.
Il vero problema posto da Giorgio Linguaglossa credo sia questo: la mancata «riforma» del linguaggio poetico italiano e l’introduzione di «poetiche normative» come quella della Linea lombarda di Anceschi ed epigoni e quella del cd. mitomodernismo. È questo il vero scoglio sul quale si infrangono gli sforzi di chi tenta una terza linea, quella che Linguaglossa chiama «modernismo»: De Palchi, Flaiano, Fortini, A.M. Ripellino, Helle Busacca, Calogero, Dante Maffìa, M R Madonna, Maria Marchesi, Giuseppe Pedota, Giorgia Stecher… ed altri.
La riflessione di Linguaglossa ha il merito di mettere a fuoco, analizzare ed incidere, come un chirugo, sul tessuto del conformismo critico (e poetico) che ha avviluppato gli ultimi tre decenni di vita poetica italiana, anche per via di alcuni “silenzi” e alcune “censure” imposte dall’alto, cioè dagli uffici stampa dei due maggiori editori a diffusione nazionale (Mondadori e Einaudi). Il resto è storia dei nostri giorni. La storia di un conformismo che percorre tutto il Novecento e, in particolare, il secondo Novecento poetico e critico.
Laura Canciani
…insomma, quello che rimane da fare è il tragitto più lungo e tortuoso: appunto, uscire dal Novecento. Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, ritengo. Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?), appartenente alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo “La bufera” (1951); in verità, con Satura (1971) Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese; ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista come la trilogia di Ripellino degli anni Settanta: da “Non un giorno ma adesso” (1960), all’ultima, “Autunnale barocco” (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi “Notizie dal diluvio” (1969), “Sinfonietta” (1972) e “Lo splendido violino verde” (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come “Il conte di Kevenhüller” (1985) di Giorgio Caproni, “Paesaggio con serpente” (1988) e “Composita solvantur” (1994) di Franco Fortini hanno una matrice modernistica? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta con una lunga interruzione fino alla metà degli anni Settanta: “La presenza di Orfeo” è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata “Paura di Dio” con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955 alla quale fa seguito “Nozze romane”. Nel 1976 il suo capolavoro: “La Terra Santa” ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli “Variazioni belliche” (1964) fino a “La libellula” (1985). Un tirocinio ascetico la cui spia è costituita da uno stile intellettuale-personale con predilezione per gli attanti astratti (la Rosselli) e una predilezione per gli attanti concreti (la Merini), spinge questa poesia verso una spiaggia limitrofa e liminare a quella del tardo Novecento sempre più stretta dentro la forbice: sperimentalismo-orfismo. Direi che il punto di forza della linea modernistica sta appunto in quella sua estraneità alla forbice imposta dalla ideologia dominante. La forma della «rappresentazione» della poesia del Novecento, il suo peculiare tratto stilistico, il tragitto eccentrico, a forma di serpente che si morde la coda, è un rispecchiamento del legame «desiderante» della relazione che identifica l’oggetto da conoscere e lo definisce in oggetto posseduto. Gli atti «desideranti» (intenzionali) del soggetto esperiente definiscono l’oggetto in quanto conosciuto e, quindi, posseduto. Di fronte al suo «oggetto» questa poesia sta in relazione di «desiderio» e di «possesso», oscilla tra desiderio e possesso; è un sapere dominato dalla nostalgia e dalla rivendicazione per il mondo un tempo posseduto e riconosciuto. È perfino ovvio asserire che non soltanto il riconoscibile entra nella poesia del tardo Novecento, con il suo statuto e il suo vestito linguistico, mentre l’irriconoscibile è ancora di là da venire, resta irriconosciuto, irrisolto e, quindi, non pronunziato linguisticamente. La formalizzazione linguistica non può che procedere attraverso il «conosciuto», il «noto». Questo complesso procedere rivela l’aspetto stilistico (intimamente antinomico) del percorso che ci porta dalla lirica al discorso poetico attestato tra il desiderio e la rivendicazione di un mondo «altro», tra la vocazione e la provocazione, tra il lato riflessivo e il lato cognitivo dell’intenzione poetica. Di fatto, non si dà intenzione poetica senza una macchina desiderante dell’oggetto (con il suo statuto linguistico e stilistico). La poesia che si fa strada consolidandosi appresso alla propria ossatura linguistica allude al tragitto percorso dalla contemplazione alla rivendicazione. Ma così facendo resta pur sempre impigliata dentro l’ossatura di un certo paradigma novecentesco: non quello maggioritario, intendo, eletto a «canone» (attraverso le primarie e le secondarie delle istituzioni stilistiche egemoni), ma quello laterale, e ben più importante, che attraversa la lezione di Alfredo De Palchi, Ennio Flaiano, Franco Fortini passando per Angelo Maria Ripellino, fino a giungere ai giorni nostri. poeti del tardo Novecento come Helle Busacca, Giuseppe Pedota, Roberto Bertoldo, Dante Maffìa, Maria Rosaria Madonna, Maria Marchesi, Laura Canciani si rendono conto che è necessario rompere le righe del politically correct, che occorre deragliare da un certo impiego (ormai consunto) di un certo «quotidiano» e di un certo linguaggio «mitopoietico» divenuto ancillare e tautologico. Nella loro poesia poesia non vi sono passaggi tra i diversi gradi di esperienza che l’oggetto rivela, non v’è un continuum (linguistico o topologico), si rinviene una retorizzazione di stampo modernista (né in posizione di punta né in posizione di retroguardia), una ritmica ed intermittente lontananza dall’oggetto da formalizzare nell’impianto stilistico. L’io percipiente osserva e non reclama più l’oggetto del suo desiderio. La riproposizione della centralità dei soggetti percipienti (rappresentati nell’atto del vedere, afferrare, comprendere il mondo (gli oggetti, l’«io», gli eventi, la Storia), vorrebbe una via di uscita dalla frammentazione dell’oggetto ma anche dalla dissoluzione del soggetto: due discontinuità che si sommano, anzi, si sovrappongono. E si elidono. La continuità della percezione si converte in interferenza, intermittenza, simbiosi anche stilistica. Poesia che tenta la costruzione di un argine al problema del «vedere», anzi, della «cecità» propria del minimalismo, tutto incentrato sulla riproposizione della centralità di un «io ingenuo» e acritico che economizza nell’atto del vedere e travasa il problema nell’atto del commentario agli eventi della cronaca.
… ci sono dei nodi nella storia della poesia italiana? Interessa a qualcuno? Ma davvero c’è voglia di dirimere le questioni poste sul tappeto dal libro di Giorgio Linguaglossa? Credete che qualcuno degli addetti ai lavori del sistema-poesia sia così ingenuo da impelagarsi nelle questioni scottanti della poesia italiana del secondo Novecento?
Ragioniamo: se lo facessero sarebbe come confessare che finora i critici e i poeti hanno dormito sonni profondi… io invece credo che i nodi (venuti al pettine nel libro di Linguaglossa) saranno destinati a rimanere nodi, per il fatto che non interessa a nessuno incidere con il bisturi i bubboni (i problemi aperti) della poesia italiana del secondo Novecento.
Non c’è né ci potrà essere che qualche timido apprezzamento (con gli opportuni distinguo… ma il migliore antitodo rimane pur sempre il silenzio) e tutto finirà nel nulla… non credo che ci sia da parte dei “critici” né da parte dei “poeti” la volontà di mettersi a questionare sulle questioni aperte, perderebbero amicizie e simpatie coquistate durante lunghi anni di connivenze e convenienze. E poi: perché mettersi in gioco? che ne verrebbe loro? meglio, molto meglio discettare sui soliti finti problemi della presunta superiorità o inferiorità della poesia sulla narrativa, e viceversa.
Insomma, credo che di tutto ce ne era bisogno nell’Italia poetica tranne che di un libro come questo, perché non è soltanto un libro che dà fastidio, di più: è un libro destabilizzante. E si sa che il sistema-poesia di tutto ha bisogno, per sopravvivere, tranne che di una destabilizzazione delle linee-guida storiografiche e convenzionali che finora ci hanno propinato i delegati degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale.
Sabino Caronia
sto leggendo il micidiale libro di Giorgio Linguaglossa e mi vengono i brividi. Certo, il critico (uso questo termine ormai screditato!) romano (anche se lui dice di non essere un critico) dimostra di essere veramente un tipo fuori dalle regole ed è davvero strano che lo lascino ancora circolare liberamente.
Direi che si tratta di un pezzo della storia d’Italia passata sotto il filo di un raggio laser. Eppoi quello che colpisce è la ferrea razionalità e discorsività dell’argomentazione, che va sempre per tagli centrali e prosegue per via retta verso… verso dove? ma, direi che illustra bene, per contrasto, l’immobilismo dell’ambiente critico-poetico italiano…
Rocco Salerno
il concetto centrale attorno al quale Giorgio Linguaglossa muuove le sue riflessioni per le 400 pagine del libro è molto semplice:
la «riforma moderata» del linguaggio poetico del secondo Novecento inaugurata da Vittorio Sereni era la via giusta? Perché è stata scelta quella via?
E quella parallela dello sperimentalismo della neoavanguardia prima e della post-avanguardia poi? Non c’era una terza via?
Come si vede domande semplici, basilari, elementari… lo strano è che nessuno dei critici più accreditati (né dei poeti) abbia mai pensato di impostare una indagine siffatta. Perché? Perché bisognava nascondere la polvere sotto il tappeto? Per ipocrisia? Per conformismo? Perché tanto non interessa a nessuno indagare quella via?
Quante domande… Quante mancate risposte…
Rodolfo Settimi
Grazie degli interventi, sia delle condivisioni che delle prese di distanza, di amici di cui conosco bene le posizioni e le linee di ricerca.
Con questo post e altri collaterali volevo proprio favorire, se possibile, questo: prese di posizione degli addetti che sollecitassero interesse e approfiondimenti anche di lettori non addetti.
Mi auguro perciò che qualcuno sia stato coinvolto.
Adam Vaccaro
Dopo aver letto la recensione di Dante Maffia, il commento di Giorgio Linguaglossa e quelli dei quattro restii interlocutori, avevo pensato di intervenire. Invece ho atteso il libro per farmi una migliore idea.
Per ora sono arrivato a pagina 198, e l’idea me la sono fatta. E la nota di Adam Vaccaro mi spinge a esplicitarla subito.
Per cominciare, Dante Maffia recensisce le 411 pagine del volume “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010)” denunciando senza intoppi verità positive e negative che anch’io accuso da oltre cinquant’anni. Siamo d’accordo, non lo sono su due autori che reputo anche amici: Milo De Angelis e Andrea Zanzotto.
Comunque sospetto che le adesioni al suo commento e alla “Storia” resteranno mute dai guardinghi interlocutori, inclusi i clienti accolti più o meno bene nella “Storia”, perché il silenzio è il chiasso dei furbi che rifiuto di prolungare sin dall’inizio della mia intelligenza sotto o sul palco De Palchi; predico a voce, per iscritto e con interviste pubblicate condanne senza aver mai saputo se almeno una persona ha sorriso d’invidia o sputato. Non ho avuto successo di assenso o di critica negativa a volte alta, etc.. Il silenzio porta silenzio, insistendo però a denunciare il malcostume e il malgusto prima o dopo si annusa il fetore. Niente cambia benché i furbi e i meno furbi annusino l’uguale fetore sopportandolo con baldanza tanto sono abituati a vivacchiarci. Come vedere la fogna aperta scorrere lentamente accanto la casa in cui si abita. Ci si abitua.
Soprattutto ho avuto profondo disdegno per le pezzette in carriera con la tessera, la famosa scelta idologica ossessiva, che non lasciò indietro chi stava sottomesso ai commissari. Ed io da cinquanta nego, ad esempio, ci sia viva poesia in Giancarlo Majorino e compagni; da circa venticinque spaccio con una risata da far tremare Gianni D’Elia se pensa di aver vinto un premio di poesia con la sua arte; la storia è che il mio amico Silvio Guarnieri, della Giuria, mi chiese cosa c’era da ridere – risposi, hai votato in favore anche tu? se la giuria premia questa roba, io aspetto il Nobel. Siamo giusti, io ero ospite non un concorrente. Siccome negava, smisi d’insistere. Guarnieri e il premiato erano entrambi comunisti, e non volevo dubitare dell’onestissimo amico, come non ho mai dubitato dal 1951 di Giansiro Ferrata e Vittorio Sereni, onestissimi marxisti che mi onorarono della loro amicizia nonostante io non avessi fatto le loro scelte.
Solo disgrazie. È importante che si sappia di un tipo come me senza diritti per le formalità dittatoriali di un pubblico ignorante che non mi conosceva e non mi conosce. Finge che la propria vita non appartenga ai proverbiali fessi. Le chiacchiere dei redattori di “Officina” aumentarono chiacchiere altrettanto cerebrali sputtanate tra l’altro dai loro versi aridi.
A parte che nella “Storia” Linguaglossa mi accantona nel “lontano 1926”, anno della mia nascita, per poi discutere a lungo sul lavoro di alcuni poeti abbastanza minori della mia stessa generazione. Certo, non ero del giro, ma la mia poesia vive ancora in ottima salute.
I rari commenti sorprendono di sorpresa guardinga con domande da chiarire e con domande e risposte. Visto che evitano di compromettersi da una parte o dall’altra sfoglio io in tono peggiorativo i motivi che possono silenziare la “Storia”. Esagerato, estravagante, generoso, Linguaglossa puntella in una immensa fossa comune personaggi in maggioranza nullatenenti malgrado quantità teoriche e libresche; la mia giustizia da tempo li ha sentenziati alla categoria degli illusi, altri al massimo si eguagliano a nomi neanche menzionati: Annamaria Ferramosca, Francesca Pellegrino, Antonella Zagaroli e altri nomi di donne. Che si tratti di antipatie? Le ho anch’io, perciò ho già coperto di calcina la redazione di “Officina”, Il “Gruppo 63/Novissimi”, le varie aride avanguardie, neo-avanguardie e post-avanguardie, e poi autori seguaci della più recente scuola “ventilatori” – scuola capeggiata da Giuseppe Conte. Quasi ogni verso di tutti questi nomignoli è un falso statico o stitico. Niente si muove, e se non si muove non è poesia; e le antologie che la rappresentano ne sono la prova.
Nessuno immagina che poeti noti, affermati, sedicenti poeti noti, di essere falsari, critici e pretendenti che li hanno creati tali, si ispirino ad arrossire di vergogna dinanzi al pubblico letterario che non arrossisce di vergogna, che siano presi dalla smania di mostrare la loro precarietà a chi in disparte, o messi in disparte, pratica scelte diverse, più estese di esperienza vissuta, estranee, e non consone alla scelta singola, provinciale, pitocca e omogenea dettata dal potere editoriale di mercanti del malcostume e del malgusto. Prima o poi si arriva a indovinare il genuino e il falsario. Ammetto che mi piace essere arrogante caustico, ironico provocatore sarcastico, uno che sgomenta possibilmente la pochezza simil-poetica dei noti “grandi” senza il mio . . . nulla osta.
A questo punto trascrivo il finale d’uno scritto nel volume “La donna che parlava ai libri” di Maffia:
“. . . sognare i miei sogni, che sono senza ombre di immortalità, più che sogni desideri semplici: camminare per le strade di Tokyo, di New York, di Mosca, di Buenos Aires e vedere che le piazze principali, le lunghe arterie urbane, gli stadi, le ville, i teatri portano il mio nome”. Questi sono i “desideri semplici” degli illusi morti e vivi illustrati nella “Storia”.
Esiste una profonda differenza tra autori cerebrali in quanto non hanno niente da scegliere dal loro stomaco e autrici con mente e spirito internazionali, con esperienza millenaria di schiave violentate e abusate anche verbalmente, tutto da esplorare, e con motivazioni “niente da perdere” hanno larghezza e abisso estranei ai maschi risibili che verseggiano mediocre perfetto pulito sonoro e vuoto. Chi (uomo o donna) pesca da esperienza e vita vissuta, realtà, sa come buttarsi sulla pagina e trascendere e movimentare il contenuto.
Chi è eletto star crede che la sua stella già brilli nella storia della poesia; chi è giù – oppure in disparte per scelta o relegato ai margini – si sospetta reietto, un debellato da chi pubblicizza se stesso assistito dai suoi fautori. È l’assurdità equivoca che dura fintanto che il potere riesce a strafare per alcune generazioni. Durante la situazione di attesa, di presunta inferiorità mobilitata artificialmente, il reietto si rode per ambizione sbagliata fino alla eventuale morte. Quasi subito inizia ad arrivare a tentoni la storia, come questa “Storia” di Linguaglossa, che comincia a spazzare via gli spazzini dalle pagine precedenti. Infatti, notissimi eletti importanti durante la loro attività, non lo sono nelle successive storie della poesia. Secoli dopo il faticoso riconoscimento ufficiale dei massimi, il 99% dei grandi lllusi sono asterischi o note a fondo pagina e alcuni relegati nelle simil-crestomazie di rimatori. Consiglio fiducia ai poeti noti, meno noti, sconosciuti, non menzionati, discussi o appena buttati nella “Storia della poesia italiana (1945-2010)”: ho l’elenco di autori già asterischi e note a fondo pagina della prossima storia della poesia italiana del ventesimo secolo.
Nonostante le mie rimostranze apprezzo Giorgio Linguaglossa coraggioso di sgomentare e sbrecciare il già stabilito da mercanti critici editori poeti e studiosi dell’errore, della pappa . . .
Alfredo de Palchi
27 agosto 2011, New York City
Pensierini sulla critica.
In un testo letterario le citazioni e anche le autocitazioni possono interessare all’interprete solo per l’uso personale che ne fa l’autore. Molte presunte citazioni sono solo forme attinte dal gran deposito della lingua letteraria.
Molti presunti stilemi sono solo il modo più ovvio per dire una cosa.
Non credere al poeta che dice di dare poca importanza alla poesia: dalla poesia anche il più pudico minimalista si attende l’immortalità.
Nell’esame di un testo poetico metrica e fonologia contano solo nei limiti entro i quali i dati rilevabili nell’analisi si immaginano percepibili da un orecchio ultraraffinato. Contano solo per la loro percepibilità.
Non dedicare la tua vita all’interpretazione della poesia se sei anche molto intelligente ma non hai orecchio. Puoi, ingannandoti, credere di averlo ma non devi pensare mai di poterne fare a meno.
Stranamente molti critici che considerano la poesia puro suono si disinteressano totalmente del problema della dizione e qualcuno di loro legge anche male ed azzoppa gli endecasillabi.
La narratologia è di solito poco gratificante. Ti lascia in mano uno scheletro senza carne. E specialmente nella narrativa la carne conta, eccome!
Inutile, se non offensiva, ogni analisi di una grande opera che si limiti a rilevare aspetti che potresti trovare anche in un’opera insignificante.
Non basta, per creare poesia, accostare a una parola un’altra parola che “non ci azzecca”.
Oltre alla disposizione alla musica all’interprete di poesia occorre disposizione alla filosofia. Non per proiettare sul testo ideologie prefabbricate ma per avvertire e condividere domande esistenziali più o meno evidenti nella metafora poetica. Potrà così capire che il succo del messaggio poetico, anche là dove sembra proporre soluzioni univoche, è una verità ambigua o meglio polivalente. Una verità che nessuna esegesi esaurisce.
Se sei un po’ filosofo non ti capiterà di accontentarti di esegesi banalizzanti: leggendo un poeta che dice: “pare infinito a sorte ricongiunga” non ti capiterà di pensare, come qualcuno ha pensato, che l’autore alluda alla sua età avanzata in contrasto con le sue insaziabili velleità amatorie.
Se hai orecchio e gusto, quando ti accosti a un testo non dar retta a diktat ideologici: quello, per esempio, che impone di non capire perché un significato, anche quando è chiaro, non c’è: oppure quello, contrario, ma concorde nei risultati, che ti vieta di trovare verità nella poesia, dove non si parla di cose e di fatti.
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Quello che non mi piace nella critica.
I) I preconcetti ideologici:
1)contenutistici: sociologici o moralistici o anche concettuali come certi residui del “vetero-positivismo” (che qualcuno chiama “neo-positivismo”) della “cosa in sé”, o di un “illuminismo che sa anche talvolta riconoscere la natura ossimorica della poesia per concludere però che l’ambiguità finisce col vanificare il “senso”.
2)formalistici: secondo schemi desunti:
a) dalla teoria della letteratura (es: la letteratura è solo forma; l’autore con le sue intenzioni e la sua esperienza interiore non conta per l’interprete che è libero di intendere come gli pare, ammesso che voglia intendere, – v. certa ermeneutica decostruzionista – )
b) da formule fissate in prospettiva storica da riscontrare immancabilmente (es. la letteratura del Novecento è tutta frammentaria; Il Novecento ama il “nonsenso”)
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II)Le letture che non tengono conto:
1) del macrotesto.
2) delle eventuali varianti.
3) della lettura ad alta voce (omissione particolarmente grave per l’interprete formalista per il quale la poesia dovrebbe essere suono e che di solito si limita a catalogare fonemi senza una verifica dell’orecchio).
4) del caso particolare che rappresenta ogni autore e ogni singola opera per cui anche la ricerca delle fonti deve tendere a individuare il senso nuovo che acquistano le citazioni nel nuovo contesto.
5) della necessità anche per l’interprete della sensibilità estetica: non basta l’acume intellettuale.
Emerico Giachery
Non vorrei che, nel fervore del dibattito, queste sagge riflessioni di Emerico Giachery passassero inosservate. Conoscevo dell’autore il saggio “Belli e Roma” e non mi aveva entusiasmato: una semplice ricerca. Ma qui Giachery ci dona, sia pure in pillole, considerazioni fondamentali per il dibattito o, perlomeno, per farci capire quanti sentieri tortuosi debba percorrere un critico prima di giudicare un testo e un autore. De Sanctis diceva che per poter capire l’intelligenza di un candidato è necessario essere più intelligenti di lui. Pensiamo, sulla scorta anche di ciò che dice Giachery, quali e quante qualità occorrano ad un critico per riconoscere un grande poeta.
Roberto Bertoldo
Invitata, intervengo con poche parole / mi pare di capire di essere stata inserita, ma non ne ho la prova non avendo il testo dinanzi, nell’ultima sezione dell’antologia di Liguaglossa.
Il problema della poesia è che deve uscire dalla poesia, e abbandonare, con separazioni casa, non solo i linguaggi della poesia tardo novecentesca, fattisi già maniera (l’ampiamente autoreferenziale sperimentalismo di annata’63 e ’93 tra i primi di nuove ondate, avanzanti la pretesa di operare mutamenti sul canone), ma sposare in nozze bigame e trigame e poligame i linguaggi che sono intanto emersi: faccio degli esempi, postando un testo del caro amico federico sanguineti, che usa e abusa e contemporaneizza in nozze promiscue il sonetto e la canzone trecentesca, in modo da coabitare col diverso, e assumerne i linguaggi con una certa cognizione di causa, per uso, prassi, continuità acquisita:
125.
oggi l’es non mi strugge
ma mi sento ben saldo
al vero sé interamente conforme
falso sé da me fugge
e né freddo né caldo
risveglia inconscio passato che dorme
come d’infanzia l’orme
sono i pensieri lassi
dispersi in cima ai colli
o giù in pianure molli
mentre rinasco e sto come chi stassi
uscito dal suo dramma
con sua amorosa fiamma
amore non mi sforza
amore non mi spoglia
amore con sue carni tutte ignude
amore senza scorza
amore verde foglia
amore che produce mia vertude
amore si apre e chiude
amore nei tuoi occhi
amore luce ombra
amore non si sgombra
amore che nel corpo mio trabocchi
amore d’altra e d’altro
amore ingenuo scaltro
le carni tue leggiadre
tue carni e il loro assalto
tue carni che feriscono senz’arme
tue carni a squadre a squadre
tue carni e il loro smalto
tue carni grazie a cui posso sfogarme
tue carni dove parme
tue carni come sempre
tue carni grida e parla
tue carni e poi ritrarla
tue carni di una carne che mi stempre
tue carni d’anno scorso
tue carni in mio soccorso
io che mi salvo a pena
io che s’annoda e snoda
io morto morto morto dalla noia
io so dove mi mena
io sperando che m’oda
io nell’attesa ch’io rinasca e moia
io che ti dico gioia
io che rimango solo
io ti conosco schiva
io nuoto verso riva
io non più in treno ma volando volo
io che vuoi che ridica
io con te mia amica
nell’utero col piede non stavo fermo unquancho
lo so che tu sarai come tu fosti
il tempo passa e riede
con te sempre al mio fiancho
pensieri tuoi ai miei son qui nascosti
segreti in noi riposti
però frammenti sparsi
crescono sotto l’erba
in forma dolce e acerba
mia libido dovrebbe ormai acquetarsi
già con poco si appaga
speranza incerta e vaga
tu sai dove mi volgo
tu sai se son sereno
tu per me sai che sei di luce lume
tu che io raccolgo e colgo
tu mi vedi terreno
tu conosci a memoria il mio costume
tu scorri come un fiume
tu siedi dove seggio
tu rosa azzurro verde
tu dove l’io si perde
tu distingui il mio meglio dal mio peggio
tu mi vuoi tale e quale
tu mi vuoi quale e tale
questa mia email purtroppo è troppo rozza
non so se tu conoschi
che nasco in sottoboschi.
(copyright: federico sanguineti, facebook, 4 settembre 2001, poesia n. 125)
perchè non una terza via, ci si chiede? perchè è semplice, ed ha a che fare con le ragioni per le quali sono passate a noi non i vangeli di Maria Maddalena o altri ancora che non sto qui a citare, ma quelli canonizzati dagli alti tribunali del potere e del controllo ecclesiastico, che fa di Pietro e Paolo non già due dei ciarlatani ambizioni e visionari, ma testimoni diretti del Verbo.
Se a erminia è stato detto che è menzionata nella “Storia” di Linguaglossa, invece di dire che non ha il testo davanti per controllare, ne acquisti una copia per ricordo.
Poi, per dare un esempio di materiale scadente che “sposa” in seconde e terze nozze quello dei testi originali di cui parla, vorrebbe farci leggere una lunga segata. L’amico federico sanguineti non è neanche alle prime nozze. Non ci arriverà mai. Ed io mi sono fermato ai primi versi, definiamoli pure così per generosità.
oderfla
eeeh? comprare una copia? ma se io sto chiamando disperatamente le Charities e le biblioteche provinciali e regionali per donare i libri che ho a bizzeffe, e lo faccio ad evitare di continuare a vivere dentro una library impolverata. non vi dico cosa è stato di questi migliaia di libri di cui oggi mi voglio sbarazzare quando per se i mesi ho avuto a casa gli scavi di pompei in formato familiare!
posso solo suggerire a Linguaglossa, come ho fatto, di riceverla per consegnarla ad una biblioteca prestigiosa di cui non faccio qui nome, e che prego Giorgio di non menzionare, sennò mi iniziano di nuovo ad arrivare a casa valanghe di libri. 🙂 dunque, no: no way! thank you.
Per quanto riguarda la poesia di federico, dai molto pregi e talenti, suggerisco di leggere questa critica di Marco Berisso alla sua prima serie di sonetti e canzoni: http://puntocritico.eu/?p=2657
sui temi di cui un poeta tratta, non c’è da esprimere opinione alcuna: ciascuno si sceglie i temi che gli garba? o forse è vietato anche questo dalla legge (italiana)?
“molti pregi” (sorry for the typos)
avevo sbagliato link: eccolo. e con questo chiudo i miei interventi perché non ho nominato il nome di un amico, per darlo in pasto all’altrui (Alfredo De Palchi) turpiloquio et intemperanze et intolleranze. Anzi, prima di chiudere, pregherei Alfredo di mandarmi qualche sua poesia, in modo che io la legga e capisca da quale pulpito nasca la predica. 🙂 Senza offesa
Poi, se invece Alfredo non anche egli (come noi! :)) poeta, lo confessi senza vergogna.
http://puntocritico.eu/?p=2744#more-2744
Ho chiesto la cancellazione dei post in cui si offende gratuitamente il poeta da me citato.
A Alfredo : consiglio sangue freddo dinanzi alla materia poetica, fredda di per sé come serpente, e viscida, pure, e consiglio il detto inglese “If you have nothing nice to say, then say nothing!”
se alfredo avesse letto la poesia canzone di federico fino all’ultimo verso si sarebbe accorto che autoironicamente egli si dice poeta ”di sottobosco”, e definisce “rozza” la sua mercanzia. dunque egli, il poeta, ha già anticipato e superato pure le critiche.
Scusi, gentile Erminia, queste domande retoriche a beneficio di chi legge nel caso fosse ingenuo quanto sono stato io per molto tempo. Ma Federico Sanguineti è il figlio di Edoardo ed è anche lui docente universitario? E Marco Berisso, che gli dedica una recensione effettivamente straordinaria nell’ambito della poesia contemporanea, è suo compaesano e in qualche modo, con lezioni e seminari, bazzica o ha bazzicato la stessa università? Niente di male ovviamente, ma è bene chiarirlo perché forse Federico è partito avvantaggiato nell’essere preso in considerazione dai critici. Su Alfredo de Palchi, che dire: ha un caratteraccio ed è poco disponibile verso la poesia altrui, soprattutto se è scritta dai maschi. Ma secondo me è, nella sua lunga storia di poeta, uno dei più importanti del Novecento. Io lo considero allo stesso livello di poeti come Ungaretti, che amo molto. Addirittura negli anni Quaranta e Cinquanta credo che De Palchi abbia aperto alla poesia nuove forme di espressione, senza bisogno di passare dallo sperimentalismo, proprio come aveva fatto Ungaretti alcuni decenni prima. Ma Ungaretti poteva contare sull’esperienza di altri poeti, dai francesi ai crepuscolari (scusi il taglio grossolano), De Palchi è stato, come dire, autodidatta. Egli, sempre secondo me, ha scritto, con “Sessioni con l’analista”, uno dei più grandi libri di poesia del Novecento, che sarebbe ancora innovativo oggi, se lo si leggesse con rispetto. E infatti gli valse l’attenzione di critici di chiara onestà intellettuale, tra i quali Vittorio Sereni, anche lui grande poeta, al quale, si dice, deve molto, poeticamente, pure il secondo Montale. Certo, oggi De Palchi è mio amico, e si potrebbe dire che, per questo, i miei giudizi positivi non sono credibili. Ma, con il caratteraccio che ha e che si può notare in ogni suo intervento, è evidente che io sia diventato suo paziente amico solo perché lo stimo come poeta. Si, a volte le amicizie tra poeti che non conoscono l’invidia, nasce dalla stima artistica e quindi gli elogi pubblici, che richiedono in più generosità umana, non sono sempre motivati da fattori extraletterari.
In ogni caso è evidente altresì, a parte i toni poco diplomatici del demonio Caronte De Palchi, che i due poeti, De Palchi e Sanguineti (tanto il padre quanto il figlio), siano lontani anni luce tra loro e non possano conciliare se non, appunto, diplomaticamente.
In conclusione, ma prenda questo mio giudizio come quello di un piccolo lettore, nonostante l’ironia del finale la poesia a me appare molto banale, non ci vedo, nonostante gli sforzi di Berisso, “pregi e talenti”, almeno non in questa poesia (poi magari il libro sarà stupendo). Lei, gentile Erminia, scrive poesie almeno cento volte migliori di questa di Federico Sanguineti e non capisco proprio, lo dico senza illazioni, penso piuttosto ad un suo eccesso di umiltà e generosità, come possa non averne coscienza.
Roberto Bertoldo
Caro Roberto,
anche tu hai fatto elogio di Palchi con passione e apprezzamento critico, come si fa con un amico ed un collega che si stima, e dunque, non è solo essere colleghi in accademia, che premia. Federico Sanguineti è il figlio di Edoardo ed è docente della cattedra di letteratura, come esperto di poesia trecentesca e Dante/Petrarca in particolare, a Salerno, cattedra che ha tenuto per decenni con altrettanto impegno e valore didattico come il padre. E proprio per essere il figlio di Edoardo ha subito piuttosto oscuramento, e non visibilità, per paradosso di casata che impone che il figlio viva nell’ombra del padre almeno fino a quando questi non deceda o gli passi apertamente lo scettro: cosa che avviene sempre mal volentieri (lo diceva quel maschilista di Freud, e, dunque, crediamogli al 25 per cento (come io faccio).
Ho citato la poesia di Sanguineti solo ed unicamente perché si parlava della questione del canone. Il canone qui che, rispetto al sonetto e alle raccolte di sonetti, a guisa di Canzoniere, diceva Berisso, dopo Cavalcanti e Dante, ha avuto in Petrarca il suo migliore fabbro. Ora Saba nel Novecento è l’autore che ci si è provato. Mica è facile scrivere sonetti, restare nella gabbia metrica e produrre senso? Ci riesce solo chi o vive in uno spazio-tempo cultura che gli/le insegna a farlo (come glielo insegna oggi anche ad una semplice ragazzina della Westfalia che digita velocemente sms sulla tastiera di un cellulare con una maestria che io intendo quale grazia e talento, nel suo specifico epocale, e ,magari so pure che ella compone poesie con questo mezzo) oppure lo apprende come accademia, e lottando con la distanza, che è lotta libresca, impara a rendere malleabile quello stucco.
Ecco io penso che il Canzoniere i Federico finalmente abbia reso malleabile quel difficile stucco e lo stia plasmando, ovvero ci tenta. vorrei allora bandire un concorso per vedere come con il canone ce la caviamo noi, in una gara o singolar tenzone a colpi di soneto, canzone e ballata trecenteschi, come sta facendo il caro Federico, bravissimo a parer mio, in questo (proprio perchè scholar, e figlio di maestro).
E Saba, lo sappiamo era un appassionato lettore di classici, anche studente di ginnasio, che anteponeva come era costume lo studio della poesia “altrui”, a ogni altra se pur piacevole cosa, come spesso non fanno gli odierni poeti. Fosse solo per criticarla e distruggerla, l’accademia serve pure a qualcosa. E le nazioni hanno I loro insegnanti di poesia, che hanno a loro volta I figli, I quali, vuoi per odio, vuoi per amore, possono eventualmente finire con l’interessarsi al mestiere paterno (e Gesù d Nazareth pur’egli lo fece, però dando spazio alla falegnameria finché, convertitosi al dettato di sua madre, ne seguì le indicazioni narrative).
Ripeto, possiamo anche decidere di buttare giù dalla rupe il figlio del panettiere perchè egli sa fare il pane ed io no, ed ha ereditato il negozio del padre, sua officina di maestria e conoscenza: ma intanto, quando ho fame, dal figlio del morto panettiere dovrò recarmi per sfamare i miei figli. E così dal figlio di Sanguineti, per istruirli!
😉 mica è un reato è essere figlio o figlia di qualcuno che ha avuto una data professione in ambito civile ed un dato talento nel campo artistico?Io ad esempio so usare benissimo la creta per fare statue, sicché mio padre era scultore. Vuoi ammazzarmi per questo? Possiamo scagliarci contro il figlio/a del falegname come contro il figlio/a del docente e contro il figlio/a del Re, certo, anzi bisogna farlo, se si vede in loro dei privilegiati che senza talento hanno avuto dei vantaggi sugli altri. Ma se questo non è il caso, allora essi sono solo stati esposti più da vicino che noi ad una data pratica e /o talento.
🙂 grazie per i complimenti cmq, e poi magari spiego un poco meglio perché amo il Canzoniere di Federico Sanguineti. Io vi prego inoltre di mantenere gentile questa conversazione, siccome non stiamo né a Firenze e nemmeno a Siena dove i dibattiti letterari si trasformavano in singolar tenzoni, e questo secondo me a suon di filoni e panelle (noti tipi di pane-arma) troppo calde in faccia.
☺
Inoltre, non è che io debba subirmi aggressioni solo perché mi piace X o y. E se mi piacesse e ritenessi oggi valida la poesia demenziale? sono o meno autorizzata a promuoverla, o la legge vieta pure questo: il problema degli scontri qui da noi, in Italia, è che tutto avviene sul livello di “o con me o contro di me!”, che è un residuo della nostra imperitura cultura fascisto-democratica (che i poeti non li arrestava e li sbatteva in guardina, veramente, come un Russia, Germania, o Cina, ma li mandava solo a piacevole confino).
NS Non ho il tempo di rileggere e fare correzione dei typos. Mi scuso di eventuli refusi. 😉
Quanto a me, non vedo (da insegnante statale figlia di insegnanti) nessun particolare privilegio ad essere impiegati (malpagati) di quel sistema che ti impone di educare (dall’asilo all’università), a suon di voti, punizioni e consigli quasi tutti potenzialmente nocivi le nuove generazioni: e nemmeno vedo il lavoro di docente più investito di particolare prestigio a livello sociale. E nemmeno vedo un abisso tra l’insegnante dei pueri e quello degli adulti bamboccioni, che ruotano intorno alla università, quali studenti che giustificano l’esistenza della scuola, oggi forse addirittura superflua così come essa è gestita e concepita, qui da noi, fino ed oltre il trentesimo anno di età, irrisolti. In Inghilterra, le famiglie ricche non mandano più alla scuola pubblica i propri figli. per evitare che presto o tardi sentano il bisogno di delinquere insieme agli altri frustrati dal sistema.
Faccio inoltre notare che, così come, pur volendo risparmiare 5 euro a paio di scarpe per sostituire i tacchi che mi si erodono sistematicamente una volta al mese, e pure avendo acquistato un pezzo di materiale per sostituirli da me, al momento di dovere usare la taglierina e il martello per foggiare, dalla materia informe, il nuovo tacchetto, e applicarlo al tacco della scarpa, mi sono ferita e sono dovuta andare all’ospedale, dove hanno provveduto a cucirmi la ferita non il sarto, ma il signor chirurgo: così per capire di poesie, canzoni, ballate e sonetti, ho dovuto essere allieva come migliaia di altri/e, di Sanguineti Edoardo.
Credo nelle professioni come capacità di fare delle cose e tramandarle: e dunque credo negli ambiti professionali, che hanno i loro cadetti (così come i loro bocciati). Poi, se non vuoi essere valutato e misurato, tu stai a casa e non mostri la tua poesia né al professore e nemmeno al critico. E ti illudi che sia stata promossa: e nemmeno questo in fondo è un reato, sicché il sogno e la speranza servono come il pane a vivere e a farcela.
Non tutti i critici seri, e i professori onesti, compromettono a cuor leggero la loro faccia, promuovendo chi non vale. Anche questo mio utopico finale pensiero è un tipo di illusione che mi aiuta a vivere.
Il vero scandalo sono invece le piaghe editoriali dell’odierno mercato “culturale”, di cui parla Linguaglossa, che impongono alla storia edizioni prodotte solo per politiche che hanno molto a che fare con la volgare pecunia.
Ripensando, mentre mi prendo una pausa, al problema delle “ostilità a prescindere”, si è in disputa perchè parte di un sistema di egemonie in lotta: ma se questo mondo non fosse tale, dico dal picco dell’utopia da cui prendo un poco di fresco dalla attuale calura a livello del mare, un pianeta di egemonie sorgenti e declinanti in lotta, io e te potremmo, senza tema di guerra, appoggiare Palchi o Sanguineti, “poets in their own right”, senza mai venire a diverbi: fin quando saremo in un pianeta iniquo, dove ciascuno si sente ”a prescindere” (da ogni serena valutazione dell’altrui merito e diritto) vittima e, dunque, per definizione e posizione assunta, antagonista, come è di fatto, ci saranno sempre le prese di posizioni radicali ed intolleranti, per cui essere amico di x piuttosto che amico di y, ti farà nemico di y e di tutti i suoi seguaci (come del resto avvenne alla povera Maria Maddalena dinanzi al feroce Pietro, solo interessato a mettersi seduto sulla sua bella pietra ed ergerci su una sua disperata egemonia che escludesse prospettive rivali, o semplicemente diverse sul malcapitato jesus).
ancora “grazie”, amici, per lo spazio e l’ascolto: lo apprezzo immensamente. e saluto Giorgio ringraziandolo, nell’eclissarmi, per l’invito suo molto gentile a intervenire in questo interessantissimo dibattito sulla sua / nostra opera.
Va bene, ragazze e ragazzi, parlate pure di sonetti rime e canzoni. Non sono contrario, anzi, i grandi poetini italiani di oggi dovrebbero disciplinarsi imparando quelle forme per liberarsene poi. Non accetto, però, che quelle forme si presentino in grande “forma” tecnica con il vuoto dentro.
Mai, non offendo mai la donna, e tanto meno la poeta; a Erminia chiedo pubblicamente scusa se si è sentita offesa del mio giudizio basato sulla interrotta lettura dei primi versi di federico. E più che federico era mia intenzione sarcastica di far immaginare caserecce, casalinghe (si noti che non ripeto racchia) le “spose” poete––tutti maschi oramai malandati nei vari gruppi (per la cronaca una sola donna era nel gruppo 63).
No, non sono il tipo che manda in giro il proprio
lavoro. La mia vanità non è mai stata banale, e la mia ambizione nemmeno. Chi incuriosito vuole leggere
il mio lavoro, lo cerchi. Erminia non acquista libri perché ne riceve tanti da regalare alle biblioteche.
Ma sicuramente la generosità non dovrebbe fermarsi lì, dovrebbe averne acquistando libri se pensa che i suoi propri libri dovrebbero essere acquistati da tanti lettori.
Inoltre non cerco conferme, non chiedo ad amici
critici di recensire i miei libri (generalmente
passano inosservati), di scrivere articoli, saggi, etc. Quello che finora mi è capitato lo devo quasi
tutto a coloro che non conosco personalmente. Il poeta narratore filoso e critico Roberto Bertoldo, che sa cosa penso della poesia contemporanea e come ne parlo ridendo, mi ha conosciuto una quindicina d’anni fa scoprendo la poesia di una quindicenne che io sostenevo. Menziono questo fatto soltanto perché
Roberto nel suo ultimo commento menziona che io
apprezzo meglio la poesia delle donne. Non è che io
detesti gli uomini poeti, c’è posto per tutti, e
ciascuno di noi se vuole elimina chi è povero in tutto; ve ne sono che meritano anche la mia stima e attenzione, ma è vero che per me le donne poete sono più forti. Su questa mia conoscenza non provinciale mi colpisce la deficenza dell’uomo in generale elettosi superiore. E non uso mai frasi in inglese
per far colpo.
caro Alfredo le tue scuse sono accettate, ma non mi sentivo offesa per me, assolutamente, credimi: ero solo difensiva di un amico.
Le frasi inglesi le uso solo perché vivo a Oxford, da venti anni, e metà delle mie espressioni sono, nella mia testa, inglesi, ma… chiedo scusa…per averle usate se sono state non gradite: solo che gli inglesi hanno davvero repertori nella loro lingua che una volta conosciuti, tu capisci che non hai lo stesso equivalente nella tua lingua altrettanto azzeccato.
Le frasi che ho usato io sono del repertorio di Facebook che tutti capiscono e usano, ormai.
Men che mai uso frasi inglesi per colpire alcuno. Le uso unicamente per fini comunicativi , non pensando che frasi inglesi facciano colpo. Anzi, ho la prova, ora come in passato, che, qui da noi, al massimo, destano irritazione….Lo capisco, e condivido.
🙂
I libri miei non desidero in particolare che vengano venduti, né calcolo che nessuno li compri: il mio primo editore è partito per le isole Caraibi… ha lasciato tutte le copie invendute dei suoi autori in uno sgabuzzino e ha gettato via la chiave a mare, di fronte casa sua a Salerno…poi mi hanno detto che lo sgabuzzino è stato allegato da un alluvione.
poi non voglio particolarmente che si vendano, anche perché, Alfredo, se pure li comprassero, non sarei io a guadagnarci: dunque sono quasi tutti disponibili gratis online tramite google books.
🙂
cmq la tua frase è ambigua: e può significare: ”io – per fare colpo -non uso frasi inglesi (uso altro).
🙂 saluti.
Davvero, che compro a fare libri se le biblioteche che frequento li acquistano già loro prima ancora che io venga a conoscenza di un dato testo? Io li suggerisco, come fanno tutti gli affiliati, e loro li comprano…Oppure, ancora più nella prassi, io li ricevo in dono, e, se mi piacciono, glieli raccomando e regalo. Mandatemi un furgone; voglio liberarmi dei libri che ho a casa,
Addio adesso.
Erminia,
1) che tu abbia accettato le mie scuse mi rende più che amico, migliore, grazie;
2) abito in Manhattan, e l’America, che oggi 11 settembre teme un altro patratac terrorista, mi forza a parlare sempre in inglese. Quindi, quando leggo testi italiani preferisco non vedere frasi o detti comuni inglesi o americani;
3) sono severo e “cattivo” perché la poesia viene malmenata da chi si pensa poeta senza aver poesia
nel testo o, peggio, che la fa scappare dall’arte;
per comporla e trovarsela intatta davanti non basta
amarla, non basta saper rimare tecnicamente ballate canzoni e sonetti;
4) ci allontaniamo dalla “Storia” di Linguaglossa;
siccome ha menzionato un cimitero di autori contemporanei immagino insoddisfatti di essere appena menzionati, diamoli addosso, ciascuno alzi la mano per dire la sua,inneggiando tollerando distruggendo sputtanando la sua visione––almeno ne ha una personale, non proprio conforme alle pisciate di altre “storie” che ripetono gli stessi errori orrori di pappe e fregnacce. Sì, fregnacce. Io che non seguo il detto inglese che è fin troppo vile e italiano––”se non hai nulla da dire di buono stai zitto”––qualcosa di simile, alzo sempre la mano.
L’arte arte non ha politica, tessera di partito, scelte ideologiche, etc., deve essere rispettata
e difesa dalla cosiddetta diplomazia.
Io non scrivo di critica, tuttavia ho il dovere di
esprimere la mia opinione, che fino ad ora è giusta,
se mi va di esprimerla;
5) che i grandi poetini odierni si espongano sulle
barricate e professino coraggio di opinione. Si rivolgano a Giorgio Linguaglossa che aspetta cascate
di opinioni diverse, tutte valide forse . . .
Erminia, ricorda che de palchi nonostante il suo
linguaggio ti adora.
🙂
Mia madre diceva che “ciascuno/a” sente/vuole “esprimere” “qualcosa”. Ne ho fatto il mio Vangelo. Ella era una brava insegnante che sapeva inculcare amore per la materia e per la vita e per gli altri, con queste sue semplici frasi. grazie per l’amore, Palchi, e beato te che sei a Manhattan: io ero là, a Tribeca, proprio la sera del 9 settembre, a cena al Ristorante di De Niro, dunque sai bene quanto vicino alle Torri. Ho anche una foto da Manhattan, quel giorno, con lo skyline delle due torri, che sarebbero state in piedi ancora solo due giorni. Pioveva. Io mi sentivo davvero felice.
Che “male”, in sé, c’è nella, per noi, “cattiva poesia”? Non sembrava forse orrenda ai poeti classici della prima metà del Novecento la poesia Dada, non sembrava orrenda ai commediografi classici coevi, il teatro di Jarry?
Io non credo si possa sapere, adesso, anticipare a pieno il senso storico, all’intero del continuum della tradizione, che assumeranno certe indispensabili bruttezze odierne, il loro senso, intendo, per i posteri, per i quali la tradizione è qualcosa che appare sempre valida a prescindere, solo perché é diventata tale, attraverso i canali deputati al loro tempo e luogo, appunto svolgendosi e trascinando con sé le mode, il brutto il bello, l’inutile e l’utile, l’uso e l’abuso. 🙂
quando una valanga occorre, occorre: non la si può frenare. siamo forse in clima/tempo di valanga?
quando la valanga é passata, è passata, e tu puoi solo andare a scrutare cosa ha trascinato con sé.
(ma io non lo sapevo di avere un poco di cinese, in me…) 🙂
ultimo messaggio a Palchi: mi piace guardare i programmi documentaristici sul cosmo. l’astronomia mi mette in una posizione verso il presente un poco ambigua – io già immagino il pianeta colpito e mandato in briciole da un asteroide, o reso ghiaccio o fuoco dalle ere cosmiche.
si, dunque, caro Palchi, mi preoccupo della poesia, e certo, della critica, ma sempre da un punto di vista un po’, come dire,… “allargato”, da cui non so come e quando e perché essa, con le sue parole, e regole, e tendenze, e personaggi resterà in circolo nell’etere buio dell’interspazio… e tuttavia, in questo immaginario clima di cataclisma non solo terrestre, ma interplanetario, la scrivo e, soprattutto, la leggo-insegno.
Caro Giorgio,
ti ringrazio moltissimo dell’invio di quest’ultimo tuo studio; tanto più che nella fretta di averlo, mi ero sbagliato e su Ibs avevo ordinato una copia del tuo precedente che invece avevo. Ne ho letto già gran parte e credo che partendo dall’assunto che ti eri posto hai fatto davvero un grande lavoro, ricco e coerente. Non è certo facile districarsi criticamente in tanta produzione, per la quale inoltre esiste ben poca letteratura critica. Apprezzo e ammiro il lavoro che hai fatto, indipendentemente dalla gratitudine che provo perché coninui a interessarti anche alle mie poesie. Nel tuo cortese biglietto allegato al volume, mi chiedi però una cosa che non posso proprio fare. Non perché non lo voglia, probabilmente non sarei neppure in grado di farlo, almeno al di là delle consuetudini in uso in casi di questo tipo. Voglio dire che non posso darti un mio vero contributo critico su questo tuo studio. Non lo posso fare, perché io per la verità non credo a nessun tipo di generalizzazione e di classificazione, specie nel campo letterario. Non credo che esistano categorie nelle quali si possono fare rientrare i poeti o comunque gli scrittori, neppure quelle che essi stessi professano fin ufficialmente. A mio modo di vedere, ill Novecento è stato pieno di scuole e correnti che hanno completamente distorto il senso della scrittura, spostando l’attenzione dall’opera al fatto culturale e infine sociale. In generale, non credo alla storia letteraria se non da un punto di vista strettamente storico-culturale di macroavvenimenti, persino le denominazioni secolari mi hanno sempre lasciato perplesso e scontento. Chi scrive, ha sempre a che fare con le denominazioni e impara che occorre sapersi svincolare da esse, relativizzarle fino all’insussistenza. Quanto agli scrittori, più sono grandi e più si fatica a farli rientrare in categorie storico-critiche; paradossalmente, le storie letterarie funzionano soprattutto, almeno per quanto riguarda le periodizzazioni, con i “minori”. Certo, il tuo scopo non era questo, il tuo è un esempio acuto di quella che un tempo si definiva ‘critica militante’, e capisco d’altra parte che un critico deve sapersi orientare attraverso l’immane massa di produzione che la sua epoca gli offre, deve saper assumere e scartare, e lo deve fare in base a dei parametri che vadano oltre a quello che può essere il suo gusto personale. Resto però dell’idea che l’insufficienza o l’irrilevanza di talune espressioni artistiche non dipenda mai dalle scelte di poetica operate dagli autori, ma dall’insufficienza o irrilevanza degli autori stessi. Personalmente, ho un’idea della poesia che si può ricavare da come la scrivo; forse un giorno ci rifletterò e ne scriverò. Comunque sia, sarò sempre ben lieto di leggere testi di qualità anche distanti mille miglia da me, o addirittura all’opposto. C’è sempre da imparare dalle esperienze altrui quando sono degne, anche quando non le si condivida per nulla. Per farti un esempio, non trovo che il cosiddetto ‘minimalismo’ sia un nemico da battere, non più di altre poetiche magari oggi meno influenti (se pure davvero ci sia oggi, e ho i miei seri dubbi, una poetica davvero influente); il discrimine è sempre la qualità, e l’alta qualità dei testi, non altro, può fare amare contemporaneamente espressioni poetiche così distinte quali, per fsre due esempi passati ma non troppo, quella di Montale e quella di Penna. Credo che quanto a noi pare lontano e persino opposto spesso non sia altro che un sintomo della normale miopia storica con cui necessariamente i contemporanei vedono sempre la loro contemporaneità.
D’altra parte, non penso che nei riguardi della poesia italiana dei nostri giorni sia in atto una congiura da parte di alcuni a danno di altri, se non nel senso che è comune ad ogni manifestazione sociale, e cioè che i pochi tendono sempre a difendersi dai molti per potersi distinguere; e la storia insegna anche che quando taluni di questi ‘molti’ arrivano al posto dei precedenti ‘pochi’, o comunque li raggiungono, le cose non cambiano. Certo, ci può essere arroganza, a volte, da parte di chi ha raggiunto una maggiore visibilità o notorietà; ma vedo arroganza anche in coloro che la rimproverano, fatto magari più scusabile ma comunque non meno indicativo. E poi il degrado culturale-sociale del nostro paese è talmente evidente che sarebbe davvero impossibile pensare ad oasi che non ne siano intaccate. Lo sappiamo, molta della poesia attuale più nota è terrificante da un punto di vista qualitativo. Ma davvero questo accade per i ‘centri di potere’ che sarebbero le case editrici? Francamente, non credo proprio. E d’altra parte per me è ben più penoso constatare continuamente il decadimento del gusto che fa sì che neppure gli addetti del settore paiono rendersene conto, come se nessuno sapesse più leggere la poesia.
D’altro canto, che l’ignavia della nostra società intellettuale faccia sì che i nomi che si ripetono del tutto acriticamente siano sempre più o meno quelli è il normale portato da un lato del pigro sciocchezzaio culturale nel quale viviamo, dall’altro – ma le due cose sono connesse – dell’intercambiabilità dei prodotti, in quanto il livello delle opere è generalmente così basso che all’una si potrebbe sostituire l’altra senza che il discorso cambi. Questo avviene comunemente nel mondo dell’arte figurativa, che da tempo, almeno a certi livelli ‘alti’ (da un punto di vista di mercato, intendo), coltiva l’assoluta insignificanza espressiva dell’opera d’arte in sé, con la complicità degli artisti stessi che scambiano sempre di più la realizzazione delle opere con il loro personale successo pubblico. È l’estetica del denaro e del successo. Il successo ha per così dire secolarizzato quello che era la gloria per gli antichi. Ma il successo determina anche l’impazienza, perché tutto nel mondo del successo è soggetto a una scadenza più o meno prossima. Fra l’artista e il successo si frappone l’opera, che non è più ciò che lo determina ma, al contrario, l’ostacolo da redimere per poterlo ottenere. E il successo, diversamente dalla gloria, è il risultato di un adattamento: occorre conformarsi, non tanto ai dettami di una qualsiasi estetica, quanto ai rituali sociali che ci rendono organici a quello che fingiamo di combattere. Nella nostra epoca, il conformismo è per così dire ‘corporativo’. Nel campo delle arti, anche il declamato anticonformismo lo è. In fondo, credo che il maggior torto che si sia potuto fare a Rimbaud sia stato il suo successo (da qui del resto tutta una serie di maledettismi d’accatto o di parata che dura tuttora e che continua a offuscare l’immagine artistica persino dei veri ‘maledetti’). Io penso che ci si debba sottrarre a tutto ciò: rivendicare la propria inattualità necessariamente fallimentare, anche laddove – non si sa mai – possa capitare qualcosa che apparentemente muti in ‘successo’, o meglio in notorietà del tutto occasionale, il nostro fallimento.
Come è ben noto, intorno all’insignificanza dell’arte vive e prospera tutto un mondo di lenoni che finalmente hanno scoperto il piacere di essere loro stessi – e non le opere d’arte che mai avrebbero saputo fare e neppure ‘leggere’ – al centro del discorso estetico. La poesia, di fronte al mercato dell’arte, è un mondo miserabile e questo in parte la salva. Ma solo in parte, perché la distorsione dell’approccio estetico diventa, alla fine, canone, intero sistema di guardare. Qui non si tratta di ‘minimalismo’ o altro, ma di vera e propria, profonda malattia dello sguardo estetico. Non so poi se, come dice Luigi Manzi, il vero problema oggi per la poesia è l’etica. Da un certo punto di vista credo lo sia sempre stato, perché non esiste vera bellezza (mi si perdoni il termine) senza autenticità. Ma temo che parlare di ‘etica’ in questo senso possa anche un po’ fuorviare, perché non basta l’autenticità, non basta l’onestà per scrivere poesie degne di questo nome.
Mi dirai: ma cosa c’entra il mio saggio con tutto questo? Da un lato non c’entra nulla, infatti, ed è soltanto il mio modo di spiegare la mia impossibilità personale di entrare davvero nel merito di uno studio come il tuo; dall’altro, è da lì che è partita o ripartita questa mia riflessione.
Comunque, tornerò a ragionarci con calma, e magari sarò ben lieto se saprò affrontare gli argomenti che tratti più nel particolare.
Nel frattempo grazie ancora e un caro saluto,
Fabrizio Dall’Aglio
Caro Giorgio,
ti ringrazio moltissimo dell’invio di quest’ultimo tuo studio; tanto più che nella fretta di averlo, mi ero sbagliato e su Ibs avevo ordinato una copia del tuo precedente che invece avevo. Ne ho letto già gran parte e credo che partendo dall’assunto che ti eri posto hai fatto davvero un grande lavoro, ricco e coerente. Non è certo facile districarsi criticamente in tanta produzione, per la quale inoltre esiste ben poca letteratura critica. Apprezzo e ammiro il lavoro che hai fatto, indipendentemente dalla gratitudine che provo perché coninui a interessarti anche alle mie poesie. Nel tuo cortese biglietto allegato al volume, mi chiedi però una cosa che non posso proprio fare. Non perché non lo voglia, probabilmente non sarei neppure in grado di farlo, almeno al di là delle consuetudini in uso in casi di questo tipo. Voglio dire che non posso darti un mio vero contributo critico su questo tuo studio. Non lo posso fare, perché io per la verità non credo a nessun tipo di generalizzazione e di classificazione, specie nel campo letterario. Non credo che esistano categorie nelle quali si possono fare rientrare i poeti o comunque gli scrittori, neppure quelle che essi stessi professano fin ufficialmente. A mio modo di vedere, ill Novecento è stato pieno di scuole e correnti che hanno completamente distorto il senso della scrittura, spostando l’attenzione dall’opera al fatto culturale e infine sociale. In generale, non credo alla storia letteraria se non da un punto di vista strettamente storico-culturale di macroavvenimenti, persino le denominazioni secolari mi hanno sempre lasciato perplesso e scontento. Chi scrive, ha sempre a che fare con le denominazioni e impara che occorre sapersi svincolare da esse, relativizzarle fino all’insussistenza. Quanto agli scrittori, più sono grandi e più si fatica a farli rientrare in categorie storico-critiche; paradossalmente, le storie letterarie funzionano soprattutto, almeno per quanto riguarda le periodizzazioni, con i “minori”. Certo, il tuo scopo non era questo, il tuo è un esempio acuto di quella che un tempo si definiva ‘critica militante’, e capisco d’altra parte che un critico deve sapersi orientare attraverso l’immane massa di produzione che la sua epoca gli offre, deve saper assumere e scartare, e lo deve fare in base a dei parametri che vadano oltre a quello che può essere il suo gusto personale. Resto però dell’idea che l’insufficienza o l’irrilevanza di talune espressioni artistiche non dipenda mai dalle scelte di poetica operate dagli autori, ma dall’insufficienza o irrilevanza degli autori stessi. Personalmente, ho un’idea della poesia che si può ricavare da come la scrivo; forse un giorno ci rifletterò e ne scriverò. Comunque sia, sarò sempre ben lieto di leggere testi di qualità anche distanti mille miglia da me, o addirittura all’opposto. C’è sempre da imparare dalle esperienze altrui quando sono degne, anche quando non le si condivida per nulla. Per farti un esempio, non trovo che il cosiddetto ‘minimalismo’ sia un nemico da battere, non più di altre poetiche magari oggi meno influenti (se pure davvero ci sia oggi, e ho i miei seri dubbi, una poetica davvero influente); il discrimine è sempre la qualità, e l’alta qualità dei testi, non altro, può fare amare contemporaneamente espressioni poetiche così distinte quali, per fsre due esempi passati ma non troppo, quella di Montale e quella di Penna. Credo che quanto a noi pare lontano e persino opposto spesso non sia altro che un sintomo della normale miopia storica con cui necessariamente i contemporanei vedono sempre la loro contemporaneità.
D’altra parte, non penso che nei riguardi della poesia italiana dei nostri giorni sia in atto una congiura da parte di alcuni a danno di altri, se non nel senso che è comune ad ogni manifestazione sociale, e cioè che i pochi tendono sempre a difendersi dai molti per potersi distinguere; e la storia insegna anche che quando taluni di questi ‘molti’ arrivano al posto dei precedenti ‘pochi’, o comunque li raggiungono, le cose non cambiano. Certo, ci può essere arroganza, a volte, da parte di chi ha raggiunto una maggiore visibilità o notorietà; ma vedo arroganza anche in coloro che la rimproverano, fatto magari più scusabile ma comunque non meno indicativo. E poi il degrado culturale-sociale del nostro paese è talmente evidente che sarebbe davvero impossibile pensare ad oasi che non ne siano intaccate. Lo sappiamo, molta della poesia attuale più nota è terrificante da un punto di vista qualitativo. Ma davvero questo accade per i ‘centri di potere’ che sarebbero le case editrici? Francamente, non credo proprio. E d’altra parte per me è ben più penoso constatare continuamente il decadimento del gusto che fa sì che neppure gli addetti del settore paiono rendersene conto, come se nessuno sapesse più leggere la poesia.
D’altro canto, che l’ignavia della nostra società intellettuale faccia sì che i nomi che si ripetono del tutto acriticamente siano sempre più o meno quelli è il normale portato da un lato del pigro sciocchezzaio culturale nel quale viviamo, dall’altro – ma le due cose sono connesse – dell’intercambiabilità dei prodotti, in quanto il livello delle opere è generalmente così basso che all’una si potrebbe sostituire l’altra senza che il discorso cambi. Questo avviene comunemente nel mondo dell’arte figurativa, che da tempo, almeno a certi livelli ‘alti’ (da un punto di vista di mercato, intendo), coltiva l’assoluta insignificanza espressiva dell’opera d’arte in sé, con la complicità degli artisti stessi che scambiano sempre di più la realizzazione delle opere con il loro personale successo pubblico. È l’estetica del denaro e del successo. Il successo ha per così dire secolarizzato quello che era la gloria per gli antichi. Ma il successo determina anche l’impazienza, perché tutto nel mondo del successo è soggetto a una scadenza più o meno prossima. Fra l’artista e il successo si frappone l’opera, che non è più ciò che lo determina ma, al contrario, l’ostacolo da redimere per poterlo ottenere. E il successo, diversamente dalla gloria, è il risultato di un adattamento: occorre conformarsi, non tanto ai dettami di una qualsiasi estetica, quanto ai rituali sociali che ci rendono organici a quello che fingiamo di combattere. Nella nostra epoca, il conformismo è per così dire ‘corporativo’. Nel campo delle arti, anche il declamato anticonformismo lo è. In fondo, credo che il maggior torto che si sia potuto fare a Rimbaud sia stato il suo successo (da qui del resto tutta una serie di maledettismi d’accatto o di parata che dura tuttora e che continua a offuscare l’immagine artistica persino dei veri ‘maledetti’). Io penso che ci si debba sottrarre a tutto ciò: rivendicare la propria inattualità necessariamente fallimentare, anche laddove – non si sa mai – possa capitare qualcosa che apparentemente muti in ‘successo’, o meglio in notorietà del tutto occasionale, il nostro fallimento.
Come è ben noto, intorno all’insignificanza dell’arte vive e prospera tutto un mondo di lenoni che finalmente hanno scoperto il piacere di essere loro stessi – e non le opere d’arte che mai avrebbero saputo fare e neppure ‘leggere’ – al centro del discorso estetico. La poesia, di fronte al mercato dell’arte, è un mondo miserabile e questo in parte la salva. Ma solo in parte, perché la distorsione dell’approccio estetico diventa, alla fine, canone, intero sistema di guardare. Qui non si tratta di ‘minimalismo’ o altro, ma di vera e propria, profonda malattia dello sguardo estetico. Non so poi se, come dice Luigi Manzi, il vero problema oggi per la poesia è l’etica. Da un certo punto di vista credo lo sia sempre stato, perché non esiste vera bellezza (mi si perdoni il termine) senza autenticità. Ma temo che parlare di ‘etica’ in questo senso possa anche un po’ fuorviare, perché non basta l’autenticità, non basta l’onestà per scrivere poesie degne di questo nome.
Mi dirai: ma cosa c’entra il mio saggio con tutto questo? Da un lato non c’entra nulla, infatti, ed è soltanto il mio modo di spiegare la mia impossibilità personale di entrare davvero nel merito di uno studio come il tuo; dall’altro, è da lì che è partita o ripartita questa mia riflessione.
Comunque, tornerò a ragionarci con calma, e magari sarò ben lieto se saprò affrontare gli argomenti che tratti più nel particolare.
Nel frattempo grazie ancora e un caro saluto,
Fabrizio Dall’Aglio
– Non è bello ciò che ò bello, ma è bello ciò che piace.
– La poesia non coincide necessariamente con il bello e il formalmente sancito tale lo è solo per chi lo sancisce e per chi accetta questi modelli imposti, entro dati periodi ed entro certe coordinate culturali.
– la poesia per essere scritta, non ha bisogno di mediatori, e la poesia nella fase della sua produzione parla dei sentimenti belli e brutti, dei gusti belli e brutti, delle incertezze, delle crisi, insomma dello stadio in cui dati valori vengono rappresentati, ad un certo momento del “proprio” tempo. dunque il bello e la proposta del bello c’entra solo in parte….
– la poesia, per essere letta, “aveva” bisogno di mediatori, che ne autorizzassero la pubblicazione: oggi non più. ne risulta che solo una parte di quello che si legge perché viene, per qualche ragione, ritenuto pubblicabile, è stato autorizzato, sancito come poetico.
ma oggi siamo in una fase storica in cui si dubita delle ragioni del critico che promuove e avvalla, etc.
il lettore, che non vede interposto, d’altro canto, tra il proprio giudizio e il testo poetico a cui si avvicina, nessun particolare “legislativo” mediatore, se ne deve fare presso se stesso critico: qualche mezzo e strumento lo elaborerà, perché già l’avvicinarsi alla poesia come lettore implica una qualche disposizione all’analisi del testo poetico. il lettore critico autodidatta, che per esempio accede a testi online, adotterà nuovi strumenti, che il critico della vecchia guardia, con solide impostazioni di giudizio o esperienza nel campo, aborrirà come non autorizzati e validi.
una sola domanda a Fabrizio: chi stabilisce e come lo si stabilisce – o meglio si può farlo? – il livello di “autenticità” di un’opera poetica? io non capisco, in questo contesto, cosa si intenda per autenticità, quando si applica ad una creazione, come la poesia, interamente costruita.
se si intende per “autenticità” il tasso di intensità del contenuto di pensiero e di idee, chiedo: dobbiamo stimare il valore di un testo poetico dal grado di intensità dei suoi contenuti psicologici, emotivi, di militanza politica, ideologici?
Ma questo grado di eventuale autenticità, come intensità dei contenuti, non è solo attinente all’ambito della poesia: ogni attività umana creativa o lavorativa o sentimentale o erotica, implica diversi livelli di intensità – ma non è certo “l’intensità” a stabilire la autenticità come valore di qualcosa…
– l’assassino che uccida con grande passione non avrà minore colpa o maggiore autenticità nel suo crimine dell’assassino che uccide a sangue freddo…in criminologia, l’omicidio passionale è stato posto sullo stesso piano dell’omicidio premeditato.
Con quali criteri e metri la si stabilisce, in poesia, questa autenticità? Ed è la autenticità un valore in sé?
Un valore o un metro che si può fissare una volta per sempre?
Se la autenticità fosse davvero un valore imprescindibile, Gesù non avrebbe avuto seguito, fama e storia, come poeta della poesia civile e dello spirito, sicché nulla che i 4 vangeli canonici e gli innumerevoli vangeli apocrifi passano come sue verità, sono parole sue autentiche, ma testi frutto di negoziazioni e riscritture con infiniti rimaneggiamenti.
Allora, per apprezzare le parole di Gesù, poeta sublime del destino umano, ufficialmente sancito mi pare da credenti e anche da non religiosi, devo leggere con una certa elasticità mentale i 4 Vangeli e cercare di superare il dilemma della loro autenticità e dunque superare la questione stessa dell’authorship.
Solo delle domande per invitare a chiarire termini altrimenti ambigui.
Cordiali saluti (erminia, 25 sept, Oxford)
Per esempio, si disquisisce e si lotta da almeno due secoli per comprovare la “autenticità” della figura storica di gesù, il cristo, secondo i vangeli, cercando di metterne insieme coerentemente i contenuti di verità e realtà, e/o rilevarne le discrepanze, a seconda della prospettiva da cui questa “autenticità” supposta – e del personaggio, e delle scritture biografiche a lui correlate – vien affrontata, difesa e/o sfidata.
ma quale sarebbe l’autenticità da appurare in un testo poetico qualsiasi? l’esistenza in vita, autentica o meno del suo autore, ovvero se o meno provasse quei sentimenti ed avesse elaborato quelle date idee o invece delle fingesse in base ad un progetto e ad una costruzione?
🙂 ok, per i non contemporanei…
e dei contemporanei, quale autenticità deve essere appurata? il contenuto, se o meno autentico, del sentimento espresso, delle idee portate avanti?
🙂
bene, non credo che a questa autenticità inattingibile io tenda affatto, nel leggere testi altrui.
ho un poco reiterato il concetto, e me ne scuso.
Cara Erminia, solo poche parole per rispondere alla sua domanda e per spiegare che da un lato non ho alzato il vessillo dell’autenticità, perché ritengo, come ho scritto a Giorgio Linguaglossa, che in ogni caso non sarebbe sufficiente a decretare la qualità dei testi. Un autentico idiota scrive idiozie autentiche, se mi si passa il paragone. Dall’altro, con ‘autenticità’ io intenderei però anche qualcosa di diverso, e cioè la volontà di non accettarsi al nostro primo stato, di non crederci quali ci vogliamo credere e quali ci vogliono far credere che siamo. Non è un canone estetico, ma etico, che riguarda a mio avviso tanto chi scrive poesie quanto chi non le scrive. Per chi le scrive, non si tratta certo degli “argomenti” trattati, che possono essere i più fasulli possibili, non è questo il punto; si tratta del ‘modo’ di esserci. Se ho coniugato (‘en passant’) bellezza e autenticità l’ho fatto in questo senso, pur rendendomi ben conto che il termine è difficilmente dimostrabile e sostenibile da un punto di vista critico. D’altra parte, lei ha ragione di dire che una poesia è qualcosa di interamente costruito; ma questo non inficia in nulla l’idea dell’autenticità, anzi, l’autenticità si costruisce insieme alle poesie che scriviamo (ovviamente per chi le scrive).
These days a quantity of people are undisturbed smoking cigars and cigarettes. Diurnal assorted people are either diagnosed with lung cancer or sober-sided pass away because of smoking. The passable passion yet is that people now have an surrogate to smoking your traditional cigarettes. They are called E-CIGS (electronic cigarettes). Yes! It has the nevertheless factual air of the beau id‚al licit cigarettes that we bear today but doesnt have the nasty tar, remaining smell, ash and of progress the hassles of not being proficient to smoke in bars or basically booming extreme the service lately to secure your smoke break.
[url=http://electroniccigaretteinsider.com/american-blue-tip.html]American Blue Tip[/url]
Sono capitato in questo forum per puro caso e ho letto questo commento di Roberto Bertoldo:
“Scusi, gentile Erminia, queste domande retoriche a beneficio di chi legge nel caso fosse ingenuo quanto sono stato io per molto tempo. Ma Federico Sanguineti è il figlio di Edoardo ed è anche lui docente universitario? E Marco Berisso, che gli dedica una recensione effettivamente straordinaria nell’ambito della poesia contemporanea, è suo compaesano e in qualche modo, con lezioni e seminari, bazzica o ha bazzicato la stessa università? Niente di male ovviamente, ma è bene chiarirlo perché forse Federico è partito avvantaggiato nell’essere preso in considerazione dai critici.”
Ligio al più scadente malcostume internettesco il signor Bertoldo allude senza poter provare (perché, ovviamente, prova non si può dare) a chissà quali combine tra universitari “compaesani” (sic! e pensare che Federico non ha mai abitato a Genova!) per sorreggere chissà quali mafie letterarie.
Quanto sia ridicolo pensare che Edoardo Sanguineti abbia potuto appoggiare in alcun modo il figlio o che Federico Sanguineti abbia goduto di trattamenti di favore perché Edoardo era suo padre è evidente a chiunque abbia avuto la fortuna di conoscere l’uno e l’altro e non metterebbe conto insisterci, non fosse che ogni tanto qualche bell’ingegno tipo il Bertoldo ritira fuori la favola bella.
Federico Sanguineti (che conosco da anni principalmente per i comuni interessi danteschi) mi ha chiesto di scrivere sul suo libro perché, da studioso di poesia medievale (che è poi il mio mestiere), pensava che io potessi avere qualche interesse nel suo progetto. Dopo aver letto la raccolta, considerandola un libro più che notevole, ho deciso di scriverne per spiegare cosa mi avesse colpito. Questo è tutto: libero chiunque, naturalmente, di pensare che quelle che ho scritto siano tutte stupidaggini, ci mancherebbe, ma la bassa cucina dele allusioni offende, prima ancora della mia onorabilità (che è quella che è, ossia poca cosa), quella di uno studioso di irreprensibile rigore come Federico Sanguineti.
Mi scuso ancora per l’intromissione.
No, dottor Marco Berisso, non veda il male dove non c’è; io, dopo aver apprezzato la validità del suo lavoro, davvero quasi unico sulla poesia contemporanea che di solito elogia senza dimostrare, ho chiesto, senza parlare di mafie (niente di male, dico infatti), se ci fosse un legame tra Edoardo, Federico (che non sapevo esistesse) e lei. Questo avrebbe forse spiegato l’attenzione verso Sanguineti figlio così come si spiegava l’attenzione verso De Andrè figlio e Mazzola fratello o avrebbe spiegato l’attenzione verso un amico o collega. Tutto qui. Del resto se Linguaglossa nel suo libro parla di me (senza che gliel’abbia chiesto) forse è grazie al fatto che ci conosciamo, in quanto, con la marea di poeti che c’è, senza amicizia, spesso nata proprio per apprezzamento reciproco, nessuno si accorgerebbe di un Bertoldo qualsiasi. Eppure metto la mano sul fuoco circa l’onorabilità di Linguaglossa. Il chiarimento che lei ha dato in fondo comprova non combine e mafie ma proprio ciò che poteva essere, ossia un rapporto di lavoro e amicizia.
La ringrazio per il chiarimento. Un cordiale saluto.
Grazie Marco Berisso per l’intervento sul soggetto della poesia di federico che io ho indicato al forum, ammirandole le qualità e ritrovando nel suo saggio molti degli aspetti che anche io vi riscontro e apprezzo: in omaggio a federico sanguineti, ecco un suo sonetto travestito, del 2011, ventriloquamente autoriflesso, che io recito.
http://www.youtube.com/watch?v=WGpVEIdjiTo
cordiali saluti, erminia
Per Erminia.
Non ci capisco più niente e forse non ho mai capito: cosa intendeva il 24 settembre con questo intervento?
“A Alfredo
Rispetto alle questioni prima discusse, rispetto a Sanguineti Junior, Alfredo, devo darti oggi ragione.
:/
Avevi assolutamente ragione.”
Alfredo de Palchi non ha avuto che parole negative su Sanguineti Junior. Mi faccia capire, per cortesia.
No, perché un colpo al cerchio e uno alla botte e poi di nuovo uno al cerchio…
“un colpo al cercio ed uno….”
queste oscillazioni sono dialettiche e dipendono dalle interazioni umane, quando dal piano ideale e teorico ciò che si pensa si scontra con il meteorite dell’agire.
Io penso che le poesie di Federico Sanguineti (il snguineti junior) siano un autentico esempio di avanguardia del terzo millennio. Le trovo fantastiche, e le difendo, sicché le ammiro, analizzandole dalla mia prospettiva di critico della lirica contemporanea.
punto primo: Dante Maffia è un poeta mediocre.
punto secondo: Linguaglossa non lo è da meno; ha un punto di vantaggio su Maffia. il riconopscimento di Ripellino – che non mi dispiace affatto – ma è così facile da parere ovvio.
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Vous me touchez, vous faites grandir en moi la confiance en Dieu.
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