POESIA STORIA E VITA
La ricerca incessante di Claudia Azzola
Adam Vaccaro
Claudia Azzola, Tutte le forme di vita, La Vita Felice, Milano 2020
Conosco Claudia Azzola da ormai diversi decenni, e quello che verifico a ogni suo libro è una ricerca di rigore metodologico, che prosegue lungo binari-guida, curati in poesia e narrativa. A tale proposito, richiamando Hoerderlin, diceva in una articolata dichiarazione di poetica del 2006: “L’arte è la via della natura alla civiltà e dalla civiltà alla natura”.
È una sintesi che dice già la sua visione di un poièin, determinato e innervato in un moto interminabile di misura con la totalità. Per cui aggiungeva, se tale fare “unisce vita e poesia”, sta proprio in tale tensione la conoscenza della “complessità, pur nella frantumazione” dell’immenso di cui l’arte cerca di ricostruire unità e senso. Ricerca che può essere concentrata nel nome di Dio o in laiche elaborazioni culturali collettive, in cui “l’io si debba mettere nell’angolo”, sia rispetto agli spazi dell’inconosciuto invisibile e mai totalmente conoscibile, sia rispetto al territorio che si distende davanti ai nostri occhi. Territorio di spazio e tempo che ci rende piccoli e al tempo stesso ci chiede di crescere e capire.
È la sollecitazione originaria dell’essere umano, che lo arricchisce di sapienza e gioia, e ne definisce la sua identità. E che in quella nota di poetica, Azzola così sintetizzava: “La mia passione è ricongiungere l’esistenza all’essere, e ciò ha luogo attraverso la parola poetica che collega la psiche alla cosa invisibile, al rimosso dell’esistenza”. Ma per il poièin, se è teso alla totalità, “Non ci sono cose estranee alla poesia, canto ininterrotto d’esistenza, vita che prorompe da dentro” verso “l’esperienza umana” che si sviluppa dal “sociale, all’eros, alla storia”. Dopo di che rivendicava con fierezza; “la mia poesia contiene la storia o, meglio è poesia che ha sofferto la storia”.
Il titolo e il testo di questo libro, “Tutte le forme di vita”, sono rami e frutti conseguenti e interconnessi a tale visione programmatica e metodologica.
È una scrittura di impegno antropologico teso a riattivare il processo complesso della conoscenza, nella consapevolezza dei nostri limiti e del crinale arduo su cui procediamo tra potenza intellettiva e impotenza del singolo, se non diventa cellula di un corpo sociale, se la sua identità non è voce generata e condivisa da una comunità. Ne consegue che il nucleo epifanico al centro di tale impegno è l’ethos, radice dai sensi multipli: inizio, senso del limite, etica. E come non sottolineare il profondo senso critico rispetto a un pensiero quale quello dominante oggi, che declama un’etica-non-etica di inni a ogni livello a libertà senza limiti, con hybris inevitabili e conseguenti.
A fronte di tale contesto, il pensiero critico di Azzola riafferma: “La grande arte è etica perché nasce dal ‘devo’, dal Sollen più puro, ‘io devo fare quest’opera’”, richiamando sia il termine tedesco di dovere, sia “Mania” e “sophrosyne”, termine composto di sos (sano) e phren (freno, moderazione). Sensi riferiti a stati interiori che congiungono lo stato modificato di coscienza in cui fioriscono arte e poesia e l’alveo della dantesca natural burella, riaffermando la complessità del gesto creativo, che coniuga sensi di libertà ed etica.
L’impegno si ricongiunge all’originario dare nome alle cose della poesia, sapendo che “Nominare le cose è già tradurre” nel paradosso della falsa verità, quindi gesto umano, alieno da ogni pretesa di assoluto, nel flusso della coscienza socratica di sapere di non sapere.
“Questa è la legge di verità/ tra lo stantio e il rinnovarsi:/ hai una forma, falla sbocciare/ come la rosa mundi, rosa gallica/…/ come l’insetto giallo sotto il sole/ esaltiamo i momenti della gloria! (p.9)
Sono i primi versi di questo poema e lungo racconto dedicato alle mille forme della vita, che suonano come il proclama di un alfiere, conseguente alla poetica richiamata, e riesposta altrimenti anche in postfazione.
I versi di questa sorta di certame espressivo sono mobili, entrano ed escono tra le varie forme vitali, tra l’interiorità del Soggetto Scrivente (SS) e la varietà che si offre ai suoi sensi. Col che, se “L’ape congiunge all’universo il fiore”, “Conserverò i vostri volti per non/ estirpare il gusto della storia” (p. 10); e se “Il raggiare degli insetti dotati/ di un organo una punta di cervello/ scuote il fondale di silenzio” (p.11).
Sono già esempi di una mania invasa dall’energia dell’esistente, per cui i ritmi e la musica ne sono travolti, tra enjambement e voli sintattici da lingua dell’Es, disinteressata alla grammatica dell’Io. La tessitura diventa e reinventa così il calore fulgente dell’incessante divenire, per cui “le agonie avvengono lontane/ dal brillio al fosforo d’api d’oro” (ibidem)
Sono versi del Poemetto delle api e ciclo degli insetti, testo iniziale della raccolta, che si chiude con una intensa forma di preghiera: “Possa il dio del campo insegnare/ dove intombano i gradi dèi/ …/ Guarda gli occhi degli animali./ Gli olmi fanno le ombre, ricasco/ alle marcite, alla civiltà/ delle rane del riso e granaglie;/ pensanti insetti velari bruciati/…/ C’est tout, C’est fini. Crepitano/…/ e colà nessun senso vi scorre” (p.12).
È un canto ansimante, sincopato, immerso in un corpo-a-corpo che, pur nella coscienza di un senso introvabile, non smette di farne guida della propria mania – qui cavalcata come un puledro recalcitrante alle briglie, che l’Io del SS non può non imporgli, pena l’evaporazione della forma cercata. Forma che sostanzia e si fa eco del leopardiano canto materiale e lirico, nella resistente ricerca di senso.
Ed è questa inarresa meta, mito ed essenza costitutivi dell’umano, che guida la trama della parte successiva della raccolta: Troppo lungo il racconto. Citiamone alcuni densi versi:
“Non conosciamo altro che il ‘qui’/ pieno di indicibili catene/ neuronali, non conosciamo altro che / il ‘chi’…// Non conosciamo che ‘noi’, così poco poi” (p.15):
“Non c’è un ‘io’ più fragile di quello/ che non dice mai un witz, fragile/ alga rossa in un vaso di vetro” (p.16);
“Un’immagine pura cerco, simulacro/ di un dio immeritatamente sognato” (p. 17); “Scendo in strada a vedere i volti/…// Un profondo respiro della vita” (p.18);
“Ragione e irrequietezza,/ dubbio, intuizione, perduta voce” (p.19), “Lo spirito che cerco dice poche/ parole, non normalizzato,/ lo porta il vento che impollina” (p. 23)
Ma non si può parlare del mondo senza cercare di misurarsi con il caos contemporaneo:
“Mi affondano caos e fiumane/ e gente vociante credevo la storia/ portare sul groppone sapere/ la storia ma ora svoltano eventi/ nuovi o di già vissuto riconoscilo/ odore di violenza bestiale” (p. 24); “Non gettare parole furenti/ nel caos, è già potente la crisi” (p.26)
Tuttavia la vita si difende:
“Contentezza è una risalita come/ nei sogni del mattino, pienezza,/ nel pieno di voli intorno la casa” (p.29); “Ricorda la forza dei padri” (p. 36), anche se “Dubitiamo ora del camminare” (p. 40), ma “Padre ti viene a chieder vendetta” (p.43), seppure “Il nostro cammino pesa immane/ è esposto al tempo, sull’ellisse/ terrestre, dove ogni antro è Ade,/ è soglia” (p.49), su cui “Dammi contezza dell’intera famiglia,/ degli avi belli e inconcludenti” (p.51).
“Se vuoi negare, se non vuoi vedere, su ogni uscio un volto di paesano” (p.54), l’avviso che questo intenso libro ci lascia riguarda “LE NAZIONI, Le abbiamo edificate con le mani/ tra polo e tropico quando/ l’autunno era tempo navigabile”/…/ ridefinirsi in un nome perché?/ il nostro patrimonio è legge, cultura”. Una totalità di bene e male, che chiede a noi scelte tali da glorificarne il seme.
25 settembre 2023
Adam Vaccaro
Ricevo per email il commento che segue da Claudia Azzola, che a causa di problemi tecùnici, mi prega di inserirlo in sua vece:
“L’esame di Adam, che legge il mio testo poetico alla luce dell’insostituibile parola poetica, diciamo pure, dell’ispirazione, direi “impietosamente” indaga il nervo scoperto dell’elaborazione, il dolore di vivere e di sforzarsi di leggere una realtà che sempre più ci risulta incomprensibile. E’ l’impegno antropologico”… essendo ognuno “cellula di un corpo sociale” pur nella solitudine del creare poesia. Tutto è espresso nella ricerca di senso, tema sentito acutamente anche dal recensore autore di questa nota. Vaccaro parla di stato modificato di coscienza del poeta che solo intravede una salvezza nella scrittura che restituisce senso nel caos del mondo. A questo contributo va il mio riconoscimento quale parte integrante di un discorso comune.”
Claudia Azzola
Recensione magnifica e potente, tocca le corde profonde della vita in toto, cui Claudia Azzola rivolge il suo canto, come un ripartire dalle radici dell’essere per rigenerare un pianeta malato. Solo la poesia, come Vaccaro mette mirabilmente in luce può compiere una operazione di salvezza ontologica sprigionata dall'”energia dell’esistente”, può suscitare il “calore fulgente dell’incessante divenire”. Ripartendo dalle minuscole realtà botaniche ed entomologiche, Claudia Azzola ridisegna una nuova consapevolezza antropologica, come Adam Vaccaro. ha nesso precipuamente in luce.