CRISI DELLA CRITICA E DELLA POESIA

Pubblicato il 24 giugno 2011 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

LA CRISI DELLA CRITICA E LA CRISI DELLA POESIA

Alessandro Ghignoli, Fausta Squatriti, Rossella Maiore Tamponi, Anna Maria Carpi

Giorgio Linguaglossa

Secondo una vulgata diffusa a macchia d’olio, l’interprete di un testo letterario rifà in senso inverso il cammino del locutore-autore. È questo il luogo comune più difficile da abbattere. Stando a questo assunto, l’interpretazione non farebbe che esplicitare la questione «implicita» nel testo. L’interpretazione, dunque, partirebbe dalla «risposta» per andare verso la «domanda». Il procedimento ermeneutico, si dice, richiederebbe da parte del lettore, un procedimento di ricostruzione; ma «ricostruzione» di che? Nientemeno che: ricostruzione del percorso mentale fatto dal locutore-autore. A parte lo scivolamento nello psicologismo di tale teorizzazione, è lampante la caduta in un relativismo molecolare di questa impostazione del problema.

Sia detto in chiare rime: la scrittura critica non segue lo schema sopra indicato, anzi, essa richiede la distruzione e la dissoluzione del «testo». La scrittura critica è sempre al di qua o al di là del «testo», dice sempre altro da ciò che il testo dice o non dice, non è mai neutrale e relativa ma sempre impegnata in un diverso modo di comprendere il «testo» quale parte di un «mondo». La scrittura critica quindi non può essere chiamata in causa per la «difesa» di un testo o di una serie di testi, essa è sempre all’offensiva, procede per «distruzione» in quanto rivendica la possibilità di un «testo» diverso, e quindi di un «mondo» diverso; indica la via verso la libertà di una diversa possibilità.

È chiaro che una critica «difensivista» è il contrario di una scrittura critica. Ciò che ci propina il linguaggio giornalisticheggiante delle segnalazioni e delle recensioni letterarie è qualcosa che ha a che fare, propriamente, con la simil-critica piuttosto che con il concetto di una vera e propria scrittura critica. Un discorso critico che voglia difendere il testo è qualcosa di buffo perché non c’è nulla da difendere in un testo di poesia, o meglio, nulla che valga la pena di esser difeso. Un discorso servile e servente sarebbe il peggior uffizio per la critica.

Lo so, la mia scrittura critica appare, ai lettori «singolare, idiolettica, incomprensibile, offensivistica, instabile, aleatoria, provvisoria, eccessivamente filosofica, priva finanche di un versante gnoseologico»; condivido e accetto tutte queste considerazioni, sono tutte problematicamente «vere». Come ha scritto Giusi Maria Reale: «ogni epoca ha la critica che si merita» e, sicuramente, anch’io mi merito la mia epoca. Un’epoca in cui non si distingue più la simil-critica dalla critica è davvero un’età di servizio, un’età di imbonitori. La crisi della critica è il corrispondente speculare della crisi della poesia; i due vasi comunicanti comunicano attraverso lo statuto della crisi. Non c’è più uno statuto della critica militante perché non c’è più una poesia militante, ciascun autore di poesia e di critica milita per gli affari propri, milita per i propri consensi, non è interessato ad alcun approfondimento delle questioni legate alla (propria e altrui) poesia. In questo quadro generale è ovvio che chi voglia fare una critica della poesia contemporanea appaia simile ad un ircocervo destinato ad un soliloquio interiore. In realtà, le due cose, il discorso critico e il discorso poetico, sono sullo stesso piano, sono afflitte dalla medesima solitudine melanconica.

Scrive Alfonso Berardinelli*:

«La critica…mi sembra sempre di più un’attività da inventare, se si ha la forza e la voglia di farlo. Un’attività che richiede certe attitudini e certe particolari predilezioni cioè un personale e rischioso programma gnoseologico, morale, stilistico, una certa politica e un certo uso delle proprie letture»* (p. 176).

«La forma del saggio conserva sempre qualcosa di immaturo, ama dominare senza che il suo dominio appaia tale. Regola i rapporti fra gli altri generi, si insinua fra loro e al loro interno, li alimenta e trae vantaggio dal loro splendore, se ne fa schermo imitandoli o pretende di indicare loro la strada da seguire. E il saggista è scrittore di prove e di esperimenti, sempre incerto se preferire per se stesso la riuscita o il fallimento, la forma conclusa e definitiva o il frammento aleatorio, le taglienti e perentorie certezze o i mascheramenti, i paradossi, l’istrionismo. Il saggista è perfino indeciso se scegliere fra la scelta e la sospensione delle scelte, fra la decisione e l’incertezza. Come genere letterario, perciò, il saggio è forse il più mutevole e inafferrabile dei generi. Il più esposto alle influenza di ogni altro genere, il più passivo nel suo orgoglio, il più impaziente nella sua irresolutezza…Arriva sempre in ritardo o sempre in anticipo?

Troppo tempestivo e troppo polemico, dominato dal demone della meditazione e da quello del presente effimero, schiavo dell’occasione e libero di divagare, il saggista, incapace di creare un altro tempo rispetto al tempo storico e al tempo della vita quotidiana, non ha riparo. Non può né evadere né fortificarsi dentro la trascendenza della forma artistica. Non può fluire in un racconto né sollevarsi in un canto. Rispetto a quella del narratore e del poeta lirico, la sua ispirazione è sussultoria, incostante, disorganica…Non sceglie fra responsabilità artistiche e responsabilità politiche: la sua scrittura soffre e gode di una perpetua instabilità, dato che non si fonda né sulla coerenza logica né sulla coerenza fantastica. Il saggista è un visionario del pensiero e un dialettico della metafora: scontento di se stesso, finisce di scontentare tutti, sia chi lo vorrebbe più dialettico, sia chi lo vorrebbe più visionario. Aspira alla vita essenziale, ma non riesce a distrarsi dalla cronaca. Oscilla fra il rigore dell’aforisma e la fatuità della battuta. La sua lingua è minacciata da tutti i gerghi…La sua lingua non è mai un’invenzione, né un dono…». (p. 18)

Ho letto, a più riprese, con inquietudine Amarore (Bologna, Kolibris, 2009) di Alessandro Ghignoli, e non nascondo che ho trovato il libro scalzante, interessante ma anche autosufficiente: per il suo cercare la «rotondità», per il suo «regressismo in avanti» (o «progressismo all’indietro») rispetto alla questione del Moderno; per quei ripescaggi all’indietro di arcaismi e di lessici desueti, cioè consumati (ma consumati da che cosa? ma qui il discorso si allargherebbe) che bene illustrano il loro risultare più «in avanti» di scritture illogiche, magiche, sperimentali, da sortilegio, post-orfiche che invece si rivelano essere irrimediabilmente «più indietro»… ma qui il problema intravisto dalla ricerca di Ghignoli si rivela, credo, di più difficoltosa soluzione: la mancanza di «fondamento» del linguaggio poetico del Dopo il Moderno e, di conseguenza, la necessità dell’autore di operare con operazioni di «trasbordo» dei linguaggi tra un limen e un altro e così via all’infinito… ma in questo modo il rischio è di rimanere impaniati in una sorta di scrittura-limen scrittura-da-zona-franca (che franca non è) e restare a ruotare attorno all’«astratto» perdendo di vista il «concreto» (e viceversa); il rischio è quello di restare ad osservare «i più piccoli movimenti delle labbra» laddove invece è venuta a mancare (interamente) la phoné. E chiedo: è ancora possibile, oggi nel post-moderno, in piena rivoluzione mediatica, la phoné del discorso poetico? È qui che Ghignoli si rivela per quello che è: «un visionario del pensiero e un dialettico della metafora». Direi, per concludere, che Amarore è un tentativo (coraggioso) di attraversare (a nuoto) il guado delle scritture contemporanee con l’ausilio del salvagente post-moderno della citazione relittuale. Ma allora, in qualità di critico, chiedo: perché non osare una operazione interamente relittuale? Perché non osare una nuova candidatura delle antiche retorizzazioni? Perché non osare di portare tutta in avanti la provocazione e dichiarare chiuso il problema del discorso poetico? Insomma, se la scrittura poetica odierna si volge al passato quale serbatoio di reliquari relittuali, perché non adottare interamente il serbatoio invece che singole parti di esso? Tutti problemi quantomai aperti e in attesa di soluzione. Direi che Amarore ha almeno il merito di porre la questione, nuda e cruda, sotto gli occhi dei pochi lettori intelligenti. Il da farsi è, appunto, lo scopo dei posteri. Se mai posteri verranno (mi chiedo).

Se colpa è colpa il non aver capito

l’aver mancato all’appello al grido

nella mia essaminazione cerco ragione

dell’erratica forsenaria che mi percuote

la mente il sillabare del pensiero

la fatica del festeggiar il duro alzare del dì

il voler fermare sulla pagina

questo mio lasciarmi nel farnetico

Riguardo al libro di Fausta Squatriti Filo a piombo 2004-2009 (Pescara, Tracce, 2010) nutro il sospetto che un discorso poetico fondato (sbilanciato) sugli attanti astratti pecchi proprio per quegli stessi motivi che inficiano il discorso poetico fondato (sbilanciato) sugli attanti concreti. Così, certo metaforeggiare appoggiato sul rumoreggiare dell’astratto, risulta inequivocabilmente ambiguo e ambiguiforme («con la metafora del cerchio / la mezza verità in sfatto compromesso / s’aggira dentro al cerchio. // Si può sempre dare la colpa al cane / che si mangia la coda. // Guizzo barlume teso a corda d’impiccato…»). Una certa desublimazione del lessico e della imagery è qui una questione dovuta per via del taglio verso l’«astratto» di questa poesia… La conseguenza di ciò sarebbe che l’accentuazione posta dalla Squatriti sulla «espressività» (sull’«astratto», come io la chiamo), tende a spostare, in qualche misura, il baricentro del suo linguaggio poetico in una direzione già presupposta in quel cominciamento. Insomma, tutta appoggiata sull’«astratto», questa poesia resta come sospesa, come un ponte di corda su un abisso…

Direi che ogni inizio ha un costo. Un certo inizio presuppone un determinato finale e un conseguente sviluppo. Prendere ad origine la messa in questione del «soggetto», significa, per Rossella Maiore Tamponi (Le camere attigue Milano, ed. del Foglio Clandestino, 2010), adottare un logos indiretto, sibillino ed elusivo: «ci vuole arte educata in un grembo potente / per salvare i fiori dalla magrezza, / i virgulti dal limbo, / alcune storie indugiano / in camere di sanatorio nelle quali le foglie / hanno vergogna di essere rimaste troppo strette // in certi luoghi le linfe si fermano / al proprio pallore, eppure: / se lanciassero insieme un urlo chiaro / e bianco queste foglie / vedremmo sollevarsi il tetto / e salire i filodendri ai lucernai coi rami attenti // ma le mie mani, Maddalena, e le tue / sono piccole e poche in serra e nel giardino / i germogli bruciati dal buio / sembrano palpebre del mondo socchiuse dalla storia».

Qui il «soggetto» si scopre subordinato al logos e quest’ultimo finisce con l’autonomizzarsi e volatilizzarsi. Quanto più la tematica viene «stretta» entro la dimensione di un «condominio», con tanto di «interni» e singoli condomini, tanto più lo stile diventa sfuggente, ambiguo-assertorio, volatile, elicoidale ed elitario com’è giusto che sia per un discorso poetico che voglia sottrarsi al demotico della nostra epoca mediatica. Il discorso poetico dell’autrice, che vive e lavora a Genova leggiamo nel risvolto di copertina, in questa prova di esordio è davvero convincente, tutto inscritto entro il piano conservativo dello stile, ciò che la Maiore Tamponi conserva davvero è il nucleo di una poesia aderente agli «oggetti», agli «interni» e agli «esterni», agli spigoli, al «crocicchio di sentieri», al quotidiano che fluisce tra le pareti di un condominio; direi una poesia metaforica, che tende alla metafora come suo luogo naturale. Il risultato paradossale è che in questa poesia si parla molto più del «soggetto» e dei suoi «ruoli» e del suo posto, situandolo a partire da un’altra cosa rispetto a se stesso proprio perché esso avrebbe cessato di funzionare come principio ordinatore del poetico. È a seguito di ciò che il diario poetico dell’autrice si svolge come una serie di ritratti di nature morte che vanno per singoli «interni», per pianerottoli e per singoli condomini; che oscillano tra la problematizzazione di ciò che appariva «noto» e una istanza recondita, una interrogazione intermessa che abita il discorso poetico. Un discorso poetico che riconquista una riconoscibilità attraverso una presa d’atto e di congedo (e di riconciliazione) dalla lezione del Novecento visto come una bacheca di nature morte e di reliquiari. Cito qui la poesia «Interno 37»:

Dormo sul bordo del letto, non ho di che alzarmi,

lasciate aperta la finestra di fronte anche quando piove

(il transito di nuvole sul tetto è tutto il cielo che ho),

posate con riguardo l’acqua del bicchiere accanto a me,

vicino a un fazzoletto di cotone,

tutto ciò che si muove in questa stanza

sono vecchie lancette sopra la parete.

E’  buono e giusto

che io non veda più specchiere all’anta degli armadi.

Il quadro è leggermente storto, la mia metà del letto

é sempre calda, il tuo cuscino da due anni giorno e notte

resta gonfio.

Nella poesia di Anna Maria Carpi (L’asso nella neve Milano, transeuropa, 2011), le asserzioni, le proposizioni (poetiche) il nesso proposizionale (dov’è la domanda sottostante alle quali esse rispondono?) sono svincolate dal contesto, appaiono sostituibili. La sostituibilità generalizzata pare essere il regno di questa poesia. La sostituibilità come traslato simbolico del regno della libertà (impossibile) allude a quella cosa che è poi il «quotidiano» che altro non sarebbe che qualcosa d’altro, qualcosa di irriconoscibile e di impenetrabile:

Sarà di domenica mattina,

forse sarò rimasta sola

nella mia casa di sempre, che è terribile.

Gli amici ancora vivi – chi saranno?

Voci. Ci telefoneremo sulle dieci.

Come stai? Non c’è male.

Hai visto come piove?

E oggi cosa fai?

Ho qualcosa da leggere.

Vado a una mostra.

Ho un mio nipote a pranzo.

Nella via parallela passa un tram

con un lungo sospiro.

Il lessico e la sintassi assertive hanno l’abito della «risposta» (ma risposta a che?). Sta di fatto che le «risposte», per eccellenza, sono sostituibili (come tessere di un mosaico del quotidiano) in base alla posizione soggettiva del «soggetto». Le «risposte», in quanto prodotto delle condizioni soggettive della soggettività, esprimono sempre (anche per via indiretta), una diversa possibilità, alludono al regno della libertà escusso ed agognato. Il problema che questa poesia racchiude è che essa dovrebbe condurre a un’altra risposta (o altre risposte), la quale scaturisce pur sempre da quella «domanda» che sta «a monte». In qualità di atto linguistico, la ricerca del senso (in cui questa poesia è impegnata) sposta il problema sul discorso poetico, su ciò che esso dice non dicendolo o non dice dicendolo. C’è uno spartiacque: tra ciò che sta a monte (la domanda fondamentale: la ricerca del senso) e ciò che sta a valle (il discorso poetico: l’individuazione del senso). Così, il rapporto figurale-letterale di questa poesia si presenta come un rapporto di inferenza (soppressa), un dialogo di chiarificazione tra l’autore e l’uditore; ciò spiegherebbe il tipo e l’aspetto argomentativi della infrastruttura discorsiva, l’argomentatività di un discorso poetico privo di ogni figuratività (se si intende la figuralità come quel ponte che si estende dagli atti linguistici alla simbolica). Che cos’è che si oppone qui alla inferenza? Nulla e tutto quanto può succedere. In fondo, con questa sintassi argomentativa va bene l’iperbole («In fondo alla Siberia c’era Dio…»), il truismo collima e concorda con l’iperbole, indica un ventaglio di possibilità e di diversità, dove nelle condizioni estraniate della soggettività nel mondo del Dopo il Moderno il truismo pare conviva diligentemente con il turismo e l’analogia con la ripetizione.

*Alfonso Berardinelli La forma del saggio Venezia, Marsilio, 2002

5 comments

  1. Lorenzo Pezzato ha detto:

    Non credo alla solitudine della poesia.
    Credo invece che quello proposto da Linguaglossa sia un problema di timing, fisica impossibilità di storicizzazione del momento poetico per eccesso di velocità del ventunesimo secolo, come per altro ho già scritto altrove.
    Non esiste più il lasso di tempo utile, la critica si trova in continua apnea, a passeggio su una lamina di ghiaccio talmente sottile da sgretolarsi alla prima forzatura, e l’avanguardia –ammesso abbia ancora (o abbia mai avuto) un senso parlarne- senza baricentro o gruppo di riferimento si è trasformata in un’anguilla scivolosa, terreno infido dove avventurarsi criticamente è quanto mai difficile e faticoso.
    Il ruolo del critico è allora una malinconica reminescenza del passato?
    La domanda è legittima, indubbiamente.
    Riflettendo su questo argomento qualche tempo addietro ho fatto un esperimento: dimostrare se grazie ai nuovi modi di comunicare che ci siamo dati fosse possibile per un autore trovare prima un pubblico (autonomamente attraverso la rete) e di conseguenza un editore. Chiaro che lo scopo era mettere in un angolo proprio il critico e l’editore nella loro esclusiva funzione di determinare cosa arriva al pubblico.
    Il progetto (si tratta di Feisbuuc, un romanzo pubblicato e diffuso a stralci sul web man mano che veniva scritto) è andato benissimo, concludendosi con la proposta editoriale per la pubblicazione cartacea e la successiva vendita attraverso i canali tradizionali.
    Prima che possa sorgere il dubbio, dico che non sono un fan del “giudizio popolare” che tanto mi ricorda il televoto, e che l’esperimento ha avuto un chiaro intento provocatorio, un tentativo di indurre a una sana riflessione tutti i destinatari del messaggio: autori, critici, editori e lettori stessi.
    La morale è chiara: aprire le porte e scendere in strada, affrontare una realtà diversa da com’era prima.
    Qualcuno propone di eliminare dal vocabolario critico alcuni cavalli di battaglia come “autentico” e “inautentico”. Concordo, ma solo fuori dal contesto dell’ennesima semplificazione formale e non di metodo e contenuto, altrimenti continueremo a trovarci in sale gremite di aspiranti poeti che ascoltano il critico elogiare, difendere o distruggere (per usare i termini di Linguaglossa) i versi del poeta “affermato”. Uno schema logorato che ha capacità di attrattiva prossima allo zero, con soddisfazione di chi ritiene che la poesia debba per definizione essere costretta alla clandestinità e alla solitudine.
    Ogni istante nell’universo accadono fatti eclatanti di cui non siamo testimoni, di cui ignoriamo l’esistenza e la portata. Usando la medesima logica dovremmo dire allora che l’universo è solo e malinconico, quando è chiaro che la solitudine è invece nostra, che di quei fatti perdiamo tutta la valenza senza poterci sottrarre agli effetti che producono. Così per la poesia –quella vera e contemporanea- che continua la sua strada incurante delle quotidiane vicende umane, sociali, di critica o di mercato. D’altronde, se c’è un punto fermo è che senza produzione poetica non staremmo qui a fare alcun discorso sulla critica.
    È anche vero, però, che c’è molto lavoro da fare per i poeti contemporanei.
    Innanzitutto uscire dalla scia del Novecento con uno strappo deciso e non a piccoli passi perché –tornando all’eccesso di velocità- in caso contrario ci si condanna ad essere l’appendice tramontante di un’epoca che invece è finita da un pezzo.
    In secondo luogo rifondare il linguaggio poetico –anche partendo da un moderno primitivismo- cercando di portare l’essere vicino al comunicare e non più al dire.
    Non posso, perciò, essere d’accordo con Linguaglossa quando dice “il discorso critico e il discorso poetico sono sullo stesso piano, sono afflitti dalla medesima solitudine melanconica”, penso invece che critica e poesia viaggino su due binari distinti e che il rischio solitudine sia concreto solo per la prima. A maggior ragione oggi, quando la tecnologia (e l’uso creativo che sappiamo farne) permette il contatto diretto autore-lettore senza mediazioni.

    Lorenzo Pezzato

  2. Francesca Tuscano ha detto:

    Credo che la critica non debba essere né ‘costruttiva’ né ‘distruttiva’, ma debba, onestamente, stabilire la rilevanza – formale e sostanziale – di un testo, nell’ambito dello scavo conoscitivo ed interpretativo che uno scrittore (o poeta, o teorico) opera nella realtà. Certo, per far questo è necessario ‘decostruire’ il testo analizzato (ma questa è un’ovvietà), e, altrettanto certamente, nel far questo verranno date, inevitabilmente, delle indicazioni di valore, nel senso che si stabilirà il peso che un testo può avere all’interno della lettura critica e, dunque, politica, del tempo. Certo, ogni epoca ha la critica (e la letteratura) che si merita, ma proprio per questo un critico ha una responsabilità non inferiore a quella di uno scrittore, rispetto alla propria epoca. Le grandi svolte teoriche sono nate dalla riflessione di critici che non hanno avuto paura di affrontare il loro tempo attraverso i segni offerti dalla letteratura (contemporanea e non). Naturalmente, in questo discorso non rientrano le segnalazioni pubblicitarie che appaiono nei giornali, ad opera di giornalisti o accademici. La riflessione critica è altro. Non ha neanche senso dimostrarlo.

  3. erminia ha detto:

    Federico Sanguineti sta scrivendo sonetti e canzoni sconcertantemente innovativi e ne suggerisco la lettura e l’analisi. Un esempio?

    Il mercato riduce la poesia
    Ad emistichio piccolo e privato
    E un piacere falso e complicato
    È far versi dicendo “è roba mia”.

    Questa cosa la fa la borghesia
    Contro cui in lotta è il proletariato
    Non unito e assai male organizzato
    Se non cura di avere egemonia.

    E io poeta fuori dal mercato
    Non ti scrivo per essere comprato
    Né ti dichiaro amore alla follia.

    Senza sesso sfruttato ed espropriato
    Né uomo né donna è il proletariato
    E così sono anch’io Francesca mia.

  4. Laura Canciani ha detto:

    Crisi della critica e crisi della poesia sono due fenomeni speculari, l’una il riflesso dell’altra. Alla simil-critica degli addetti al cantiere critico corrisponde la simil-poesia degli addetti al cantiere poetico. Il risultato è che ciascuno si fa, in casa, la propria poesia e se la sniffa come più gli piace… è diventata un manufatto onanistico e narcisistico (non rivolta più al lettore intelligente ma a quello da imbonire e irretire). Purtroppo, con mio raqmmarico, devo dire che in questa ginnastica eccellono le donne (Farabbi, Anedda,e le schiere di epigonesse…), ma anche gli uomini non scherzano con i fiumi sulla morte dei propri cari (il via l’ha dato Milo De Angelis con un libro sulla morte della moglie, la poetessa Giovanna Sicari) del padre, della moglie, del marito, dei figli e delle sorelle, e poi dei nipoti… insomma, è una babele di poesie funerarie, ma è anche una iattura… per fortuna è uscito il libro di Giorgio Linguaglossa “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010)” che fa un po’ di chiarezza nella poesia di questi ultimi 65 anni!…

    Laura Canciani

  5. Sabino Caronia ha detto:

    …non so che cosa si voglia indicare con i termini di «borghesia» e «proletariato» e della loro lotta che darebbe luogo al defenestramento della poesia dal mercato e roba del genere… insomma, credo che occorra essere un po’ più seri e precisi nel fare affermazioni apodittiche che non significano nulla. Insomma, cerchiamo di parlare delle questioni concrete e non dei fantasmi della lotta di classe! Se volete, (e se interessa a qualcuno) parliamo dei libri di poesia e sulla poesia. Ma, chiedo: interessa veramente a qualcuno parlare di queste cose?

    Sabino Caronia

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