Felicità & Comunità
Adam Vaccaro
Massimo Silvotti, L’ulivo e il suo respiro – Ricerca della (sulla) felicità, puntoacapo Ed. 2020
“Il sommo bene è la felicità” ricorda Giacomo Leopardi, in esergo a questo libro, che propone un viaggio arduo, denso di richiami filosofici e non solo, trattandosi di nucleo di sensi che – a partire dalla felicità –riguarda tutta la vita. Che cos’è, dunque, la felicità, come la intendiamo? Come “mancanza di dolore” o come condizione di massima espressione, se non di esplosione di tutte le capacità potenziali dell’essere umano? Massimo Silvotti va a caccia di tutto ciò che la sapienza umana ha elaborato nei secoli e millenni a partire da questo cratere profondo della fenomenologia costitutiva degli esseri umani. Il libro si svolge in cinque parti, dalla sua definizione al suo rapporto con l’etica, con la politica, con l’economia, fino al tentativo di riassumerne i molteplici sensi entro una sua possibile cosmologia. Dalla matassa che compone il filo della ricerca, scelgo tre nodi, per me fondanti.
Il primo focalizza la problematica in termini economici, della prassi di relazioni concrete in cui viviamo, sviluppate nel quadro originario del patriarcato e poi via via in forme diverse fino alla struttura attuale del capitalismo globale. Un processo millenario, fondato sul dominio di pochi e sulla visione utilitaristica, illusoria chiave di uno stato di felicità. L’esperienza ha mostrato come l’utilitarismo diventi matrice di esasperazioni compulsive che portano a stati di crescenti disequilibri. Il che toglie la base – l’equilibrio – di un possibile stato di felicità. Ma la domanda implicita, che coinvolge anche la sovrastruttura politica, è: una struttura di dominio piramidale può evitare le derive verso compulsioni competitive e crescenti squilibri che tendono a sfociare nei singoli in psicosi aggressive, e a livello collettivo in guerre di annientamento dell’Altro? La cronaca e la Storia mostrano questi sbocchi, in cui la felicità diventa sogno utopico. Ed è tale utopia che è posta nel capitolo di p, 118, in forma di domanda e orizzonte desiderabile: “Scambiarci uguaglianze?” Se la prassi della vita reale non può che essere fondata su continui scambi tra esseri umani, la felicità possibile è realizzabile solo se i vantaggi tendono continuamente a realizzare sequenze di equilibri reciproci tra le utilità conseguite. È possibile realizzare tali stati e relazioni? La visione cristiana o le più terrene analisi marxiane del materialismo dialettico, hanno immaginato ed elaborato prospettive storicosociali ed economiche contrapposte alle strutture di dominio in atto, con domande vitali irrisolte, relative a ogni piano della nostra esistenza.
Il secondo nodo che evidenzio è esaminato nella “Seconda appendice di felicità e libertà” (p.55-57), in cui Silvotti approfondisce il tema attraverso le esperienze di vita e le riflessioni di John Sttuart Mill, figlio di James, che educò il figlio con criteri di rigido razionalismo, convinto che solo così un essere umano può crescere e raggiungere un equilibrio felice. Il figlio scoprì invece che tutta la parte emozionale è imprescindibile per uno stato di felicità. Vale a dire, è solo il coinvolgimento della totalità soggettiva che fa esplodere le potenzialità inventive e dinamiche, fonti di felice appagamento generato dal moto re-attivo rispetto a ciò che manca, in un moto metamorfico che rovescia in positivo il negativo – fuori da vicoli ciechi di repulsioni impotenti. Ma questo moto non può essere prodotto e guidato solo dalla parte razionale, escludendo la mente quale funzione di tutto il corpo, quel cervello bagnato di cui parla Rita Levi Montalcini. Anche John Mill “arrivò ad attribuire il massimo valore non alla razionalità”, “ma alla diversità, alla versatilità, alla pienezza di vita, all’inspiegabile erompere del genio individuale, alla…unicità di un uomo, un gruppo, o una civiltà” (Isaiah Berlin, Libertà – John Stuuart Mill e gli scopi dell’esistenza).
Il terzo nodo è sviluppato nel capitolo della prima parte, “Felicità e dolore” (pp.21-32). In esso sono raccolti e ricompresi i primi due fin qui sintetizzati, a partire dal concetto di felicità quale declinato da Schopenhauer, per il quale la felicità è pienamente raggiunta in assenza di dolore e noia. Una condizione già evidenziata e che pone l’accento sul suo opposto negativo. Al contrario, ricorda Amartya Sen, Aristotele usa il termine eudaimonia, che “in inglese è stata maltradotta con happiness, mentre più correttamente “significa fuylfillment, cioè pienezza, appagamento, realizzazione di sé”, alias “fioritura di tutte le capacità e qualità più squisitamente umane” (Hillary Putnam).Tuttavia sono due versanti di senso che in effetti si congiungono e completano a vicenda, come mostra il richiamo che segue di Voglia di comunità di Zygmunt Bauman, che parte anch’egli dall’affermazione della “Felicità non valutata come ingrediente positivo in sé, ma come risultante dell’assenza del suo contrario”, talché in tutta la vicenda umana “la repulsione e non l’attrazione è il principale motore della storia”. Bauman riconnette la sua affermazione al commento di Walter Benjamin dedicato al quadro di Paul Klee, Angelo della storia, in cui lo sguardo è rivolto al passato, alla “catena di eventi” di “un’unica catastrofe, che continua a provocare distruzione su distruzione, le cui macerie cadono ai suoi piedi”. Dunque “l’angelo della storia procede spalle al futuro” con “occhi volti al passato”. Perché? Perché il motore della storia e del progresso umano, dice Bauman, è generato da “disgusto e repulsione…degli orrori del passato”, “scappare dai cadaveri disseminati sui campi di battaglia”, alla ricerca di una forma di felicità.
Ma la sofferenza e la repulsione implicano riflessioni eticosociali, nel senso che non riguardano solo il singolo, ma la collettività. Da quale satanico vulcano sono state generate quelle distruzioni? La risposta non può che coinvolgere l’analisi della struttura socioeconomica, le logiche che la guidano, infine gli effetti sulla distribuzione di costi e benefici in tutta la comunità. Se quest’ultima è frantumata in interessi contrapposti e squilibrati, tra le vittime di quella distruzione che fa orrore all’angelo della storia, c’è la giustizia sociale, che è un altro nome del senso di comunità, senza la quale il singolo non diventa pienamente umano. Vale a dire, senza una distribuzione giusta di costi e benefici, anche il senso di comunità diventa labile e assente. Se prevalgono l’interesse e la sopraffazione individualistiche e non la solidarietà, quale comunità si determina? Nella fase attuale, estrema, del capitalismo, stiamo vivendo una esaltazione del senso di comunità o una sua distruzione? Basta la dichiarazione di un suo tetragono esemplare, quale fu M. Thatcher, per metterci il cuore in pace: “la società non esiste, esistono solo gli individui”. La brutalità thatcheriana toglie il velo a tutte le dichiarazioni retoriche dell’idealismo liberista, mostrando che è nella dinamica e nel programma costitutivi del capitalismo sviluppare hybris individualistiche, che vedono nell’Altro un nemico e non una fonte di felicità, generare sete di dominio e guerre incessanti, tese a continui orrori e distruzioni. E, tra queste distruzioni, c’è quello della comunità, utero senza il quale i singoli tendono a rimanere feti cui viene a mancare l’alimento necessario per raggiungere una ricchezza antropologica.
Se il senso di comunità non è più percepibile, ogni singolo diventa atomo senza l’identità che solo una comunità può dare. Col che è cancellato l’auspicio del 3° presidente degli Stati Uniti, T. Jefferson: “Se il governo ha paura del popolo c’è democrazia e libertà”. E se il popolo è il soggetto collettivo che il capitalismo contemporaneo tende a ridurre in macerie, come evitare che il potere diventi dominio senza opposizioni? Domanda e problema che si trasferiscono sui limiti evidenti delle ritualità delle democrazie occidentali. Di qui il titolo, oggi sempre più attuale, del libro di Bauman. Per cui, se la felicità nasce dalle azioni capaci di misurarsi con le mancanze – ed è questo che sviluppa “pienezza, appagamento, realizzazione di sé”, “fioritura di tutte le capacità e qualità più squisitamente umane” – a quest’ultimo punto, aggiungo un’appendice non secondaria, relativa alle possibilità re-attive di quel fare chiamato poièin, che nasce anch’esso da ciò che manca. Che non risolve né salva dagli orrori della vita, ma contribuisce a vivere quegli attimi di infinito platoniani, forme di vitale rinascita e fonte di bagliori di resistente felicità. Al tempo stesso, a quanto fin qui detto non sfugge che anche la poesia è a rischio in questo contesto, perché anch’essa era voce sin dall’inizio non di un singolo ma di una comunità, voce collettiva anonima che le dava anima e identità. Non possiamo perciò non porci la domanda: averla ridotta a esercizio di un esercito di singoli senza comunità, quale poesia affollata e ininfluente rischia di essere prodotta?
Resisterà una poesia ricca, aliena di torri appagate di sé, e tesa a farsi voce di una mancanza di comunità, quale scrigno segreto di felicita? È la scommessa e l’utopia cui dare voce con ogni forma d’amore, non solo in versi, e su cui questo libro spinge a riflettere.
3 marzo 2023
Adam Vaccaro
Caro Adam, leggendo e rileggendo la tua recensione, la considerazione che la felicità individuale non possa in alcun modo prescindere da un ambito più esteso, relazionale, sociale, politico mi si rafforza ulteriormente. A maggior ragione mi pare che il grande male di questo nuovo millennio, male oscuro e pervasivo, forse irreversibile, sia questo delirante è ottuso egocentrismo.
Grazie, Massimo, della condivisione e del riscontro nei confronti della mia lettura, che sottolinea i sensi collettivi della tua stimolante ricerca. Sensi delle derive neoliberiste contemporanee, rispetto alla quali al momento non ci sono sufficienti moti culturali e sociali contrapposti.