Gian Mario Villalta Vanità della mente Milano, Mondadori, 2011
In questi ultimi due decenni è avvenuto che la proposizionalità del verso è diventata sempre più tropologica. Ciò vuol dire che i tropi (alcuni tropi assiepati secondo una tendenza lineare) tendono a diventare preponderanti a discapito delle altre forme di retorizzazioni. Fenomeno questo ben visibile e dilagante soprattutto nell’ultima generazione. Ciò che in altri luoghi ho definito stili da stagnazione, non voleva essere soltanto una stigmatizzazione in negativo ma intendeva indicare una tendenza epocale diffusa che comporta una monotonalità dei fondali, uno stile da povertà, tematiche privatistiche, una accentuazione del «privato», una accentuazione di «dettagli», un atteggiamento «desiderante» dell’occhio che osserva il «reale», una separazione tra il soggetto e l’oggetto all’interno di una visione nostalgico-restaurativa, etc.
La poesia di Gian Mario Villalta Vanità della mente (2011) non sfugge a questo fenomeno. Per Villalta il discorso poetico è quel luogo dove si continua a dire ciò che non può essere detto, non è altro che una maniera di non dire quel che si dice. Il «montaggio febbrile dei dettagli», secondo le parole di Villalta, rivela, appunto, l’esistenza di una certa «febbre», di un volontarismo, di un atteggiamento di coazione verso gli «oggetti»: ciò che si vorrebbe nascondere ritorna alla superficie della scrittura, e i «dettagli» sfuggono, necessariamente, a chiunque voglia ghermirli e catturarli; il «reale» sfugge e scivola via come acqua dalle mani che vorrebbero agguantarlo. Dire che «l’oscurità rivela» e che la poesia sia «l’evocazione della luce», come scrive l’autore in una nota annessa al volume non fa che confermare il nostro assunto: che il «reale» sfugge all’atto della contemplazione, come una natura morta, ghermita dalla luce (o dal buio) rivela soltanto ciò che si addice alla attività dell’occhio posto al di fuori degli «oggetti». Così, la processualità degli «oggetti» si sviluppa all’interno di un binario restaurativo.
Da ciò ne consegue il clima e i temi familistici (la casa, i giorni di scuola, la madre, i genitori, gli animali domestici) della poesia di Villalta in un discorso poetico ben pressurizzato, sì, controllato, sorvegliato e attento ai «dettagli» ma anche, alla fin fine, monotonale, uniforme. Un’elegia frequentemente interrotta e frenata. La riflessività del discorso poetico è la risultanza che consegue alla asseribilità del suasorio di cui questa poesia è pregna e piena, come una strada maestra che non conosca curve o diversioni laterali o inversioni, tutto il locutorio procede, lento e inarrestabile, verso il luogo dell’asseribile (che sconfina con l’indicibile), con tanto di «soggetto» (fatto salvo) fuori quadro che procede con lo zoom paesaggistico e le intromissioni del cuore. La «lingua famigliare», «la lingua propria del sentimento» (dizioni di Villalta), rivelano platealmente la tendenza alla privatizzazione del «privato» di tanta poesia contemporanea; da cui di qui allo stile familiare il passo è breve. E l’intensificazione dei colori è il contraccolpo tonale e cromatico alla monotonalità paesaggistica:
freschi i bulbi oculari,
i colori nello spettro
prima ancora
dal giallo
così intensamente vi penso
al violetto
che sfinisce
la sagoma con lunghe zampe,
fiorisce il contorno
nero e sangue,
le corna arcuate.
Giorgio Linguaglossa