Tardo capitalismo e globalizzazione. Frederic Jameson e il postmodernismo.
Paolo Rabissi
Nonostante che postmodernismo sia un termine precocemente invecchiato, a noi sembra di poter affermare, insieme con Frederic Jameson, che non esiste tuttora un altro concetto cui il termine rimanda ‘capace di rappresentare le questioni dell’oggi in modo tanto efficace e vantaggioso’. Per questo ci sembra importante richiamare ancora l’attenzione su questo autore e sul suo «Postmodernismo, le logiche culturali del tardo capitalismo», (Fazi, 2008). Ma in particolare anche alla prefazione di pugno dell’autore per l’edizione italiana, nella quale si trova la risposta a un quesito che ci interessa da vicino: che relazione c’è o bisogna stabilire concettualmente tra postmodernismo e globalizzazione? L’autore scrive questa prefazione nel 2007 e con essa egli getta un fascio di luce che serve a chiarire decine e decine delle pagine del testo vero e proprio come se, avvenuta una certa distanza temporale dai contenuti (il libro era uscito negli USA nel ’91), l’autore stesso abbia saputo con maggiore felicità di sintesi nominare le sue riflessioni.
La postmodernità, afferma Jameson, non è altro che l’attuale fase storica del capitalismo, la terza, quella della globalizzazione. Nella quale il capitalismo ha raggiunto la sua espressione più ‘pura’, in piena sintonia con le analisi di Karl Marx e di Ernest Mandel. Se la modernità, corrispondente alla fase imperialistica siglata da Lenin, è l’espressione di una modernizzazione incompiuta, la postmodernità è l’espressione di una modernizzazione e di una mercificazione molto più compiute.
Con il suo lavoro Jameson ci propone un quadro teorico, quello appunto della postmodernità, di quest’ultima e complessa fase del capitalismo. Di questo quadro teorico arco portante è la segnalazione da un lato delle fratture radicali tra le nostre esperienze di oggi e quelle della fase precedente del capitalismo, cioè quella del moderno, e dall’altro della continuità tra le strutture della globalizzazione e quelle appunto delle prime fasi del capitalismo analizzate da Marx.
L’identificazione tra postmodernità e globalizzazione lascia alle spalle diverse discussioni che a suo tempo il libro aveva suscitato. Così si esprime Jameson: «…rispetto ad allora [al ’91] abbiamo scoperto che la globalizzazione è la postmodernità e viceversa, che si tratta cioè di due nomi diversi per descrivere esattamente lo stesso fenomeno storico e lo stesso periodo economico: uno sottolinea la sua espansione economica, l’approssimarsi a un mercato mondiale definitivo, l’altro mette a fuoco le strutture e le forme culturali nelle quali è giunta a esprimersi questa mutazione».
Va aggiunto subito che l’attenzione di Jameson è sostanzialmente data alle forme culturali e alle loro strutture mentre quanto concerne i caratteri dell’espansione capitalistica e il suo mondializzarsi è dato per dimostrato e acquisito. Questo atteggiamento riguarda anche la lotta di classe e in particolare le soggettività rivoluzionarie: Jameson non le esclude affatto dalla teoria astratta ma in pratica non parla mai dei modi di produzione delle merci diciamo ‘tradizionali’, delle nuove forme di espropriazione e proletarizzazione in corso nelle aree cinesi, indiane e sudamericane, né fa cenno alla soggettività femminile anche se ne riserva qualcuno per gli studenti in un repéchage di evidente matrice althusseriana. Insomma problemi politici e prassi sembrano spariti e l’unica forte dimensione critica del presente sembra restare la condivisibilissima critica della merce (in buona sostanza di origine francofortese) quella cioè secondo la quale la merce appunto ha invaso la coscienza nonché la sfera inconscia dell’esistenza umana.
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Nel capitolo intitolato «Elaborazioni secondarie» Jameson fa un paio di osservazioni che ci sembrano cruciali per la lettura del presente. Egli rifiuta la critica che il suo postmodernismo sia una categoria specificamente culturale e sostiene al contrario che essa è concepita per dare un nome a ‘un modo di produzione’ dentro il quale la produzione culturale trova uno specifico (e decisivo) spazio funzionale. Jameson rimanda alle riflessioni, presenti nel suo testo, sulle ideologie dominanti nella postmodernità. In esse in effetti, e nella fattispecie nelle considerazioni riguardanti l’ideologia del mercato, Jameson innesta una delle tesi che tuttora fanno discutere, quella secondo cui tutte le ideologie, comprese quelle delle classi dominanti, hanno un carattere utopico.
Jameson in sostanza ci conferma che l’idea stessa del mercato libero è fallimentare e dunque utopica e anzi ribadisce che in tempi di oligopolio e di multinazionali non esiste alcun libero mercato e che se è vero che le destre non smettono di denunciare la illiberale intrusione dello stato nell’economia è anche vero che, negli USA in particolare, l’estensione del consumismo e della sua ideologia ha cominciato a diffondere un certo nervosismo rispetto al successo con cui appunto l’America consumista ha sopraffatto l’etica protestante «…ed è stata capace di gettarne al vento i risparmi e i profitti futuri esercitando la propria nuova natura, nella veste dell’acquirente professionale a tempo pieno…Non esiste un mercato fiorente e attivo la cui clientela sia fatta di calvinisti e di tradizionalisti operosi che conoscono il valore del dollaro’. Viene da riflettere, aggiungiamo noi, persino su una parte dell’elettorato di Obama! In ogni caso, conclude Jameson, nelle condizioni odierne la soluzione del .mercato è utopica quanto la trasformazione in senso socialista dei paesi a capitalismo avanzato. Il cuore dunque dell’indagine di Jameson è un altro, sta nell’analisi della ‘logica culturale del tardo-capitalismo’. Questa logica culturale è organizzata intorno ai due unici soggetti visibili, il mercato di cui abbiamo detto e i media. Con questa caratteristica fondamentale, che il mercato come luogo fisico tende gradualmente a scomparire a favore di una intima simbiosi tra mercato e media di cui è segno decisivo la tendenziale identificazione della merce con la sua immagine (cioè con il marchio o il logo).
A Jameson non sfugge la necessità della periodizzazione storica di quanto si viene poi a unificare nel suo quadro teorico. L’analisi parte da questa constatazione: c’è stata una frattura a tutti i livelli nell’Occidente che coincide con la fine del movimento moderno e che risale agli anni cinquanta. Espressionismo astratto in pittura, esistenzialismo in filosofia, il film d’autore, la scuola poetica modernista (come istituzionalizzata da Wallace Stevens) sono le ultime manifestazioni tardomoderniste, dopodiché si apre lo spazio per un caotico ed eterogeneo moltiplicarsi di manifestazioni: Andy Warhol e la pop art, l’iperrealismo, John Cage, il punk, la new wave con la punta avanzata dei Rolling Stones e dei Beatles, Godard, il video e il cinema sperimentali, il nouveau roman francese e chi più ne vuole ne metta! Per pagine e pagine Jameson ci accompagna col suo catalogo dentro praticamente tutto quello che abbiamo visto, sentito e patito dagli anni 50 in poi. È una sorta di promemoria sul passaggio ad un’età nella quale domina l’indifferenziato e tutto sembra contemporaneamente alla fine e paradossalmente all’inizio di qualcosa.
Caratteristica fondamentale di tutti questi fenomeni postmoderni è la cancellazione del confine (proprio del modernismo avanzato) tra la cultura alta e la cosiddetta cultura di massa. Il presente si presta a una proliferazione di definizioni ora come società dei consumi, ora come società dei media, ora come società dell’informazione, società elettronica ecc., tutte definizioni che in qualche modo vogliono dimostrare che le nuove formazioni sociali non obbediscono più alle leggi del capitalismo classico cioè al primato della produzione industriale e all’onnipresenza della lotta di classe.
Caratteristica ulteriore e coerente del postmodernismo è l’integrazione della produzione estetica nella produzione di merci in generale: afferma Jameson: «…la frenetica necessità economica di produrre nuove linee di beni dall’aspetto sempre più inconsueto, dal vestiario agli aeroplani, assegna all’innovazione e alla sperimentazione estetiche una funzione e una posizione strutturali sempre più essenziali».
A voler dare sinteticamente conto degli aspetti più profondamente costitutivi dell’analisi di Jameson, diremo che egli la concentra su almeno tre categorie estetiche fondanti l’età:
a) Scomparsa della profondità: se le scarpe del contadino raffigurate da Van Gogh richiedevano un atto interpretativo, le scarpe da ballerina di Warhol – assunte come simbolo dell’arte postmoderna – restano superficiali e misteriose, «non ci parlano affatto» e si configurano come «oggetti morti» e feticisti.
b) Scomparsa della storicità: nel nostro tempo la memoria si è indebolita e i grandi memorialisti sono una specie estinta. Insieme a tutte le altre forme di autorità e legittimità l’autorità dei morti si riduce a un ritmo vertiginoso.
c) Scomparsa dello stile individuale a favore dei gruppi. E siccome l’ideologia dei gruppi viene alla luce in contemporanea con la celebre ‘morte del soggetto’ i gruppi per definizione non possono essere soggetti. I soli soggetti visibili sono i media e il mercato.
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Sull’identificazione tra media e mercato Jameson scrive le pagine più significative. I prodotti venduti sul mercato, afferma l’autore, sono diventati il vero contenuto dell’immagine mediatica, tanto che, per così dire, in entrambi i campi sembra mantenersi lo stesso referente: «… Oggi i prodotti si diffondono, per così dire, in tutto lo spazio e il tempo dei settori dell’intrattenimento (o addirittura dell’informazione), come parte di quel contenuto, al punto che in alcuni casi ben pubblicizzati (specialmente nella serie Dynasty) talvolta non è chiaro quando finisce il segmento narrativo e comincia la pubblicità (dal momento che gli stessi attori compaiono anche nel messaggio pubblicitario).»
I prodotti inoltre formano una sorta di gerarchia al cui vertice sta non tanto il prodotto in sé quanto le nuove tecnologie dell’informazione e l’informatica stessa che caratterizzano la terza fase del capitalismo. In questo senso, afferma l’autore, occorre: «… postulare un altro tipo di consumo: il consumo dello stesso processo di consumo, al di là del contenuto e dei prodotti commerciali immediati. È necessario parlare di una sorta di bonus tecnologico del piacere offerto dalle nuove macchine e, per così dire, simbolicamente rimesso in atto e divorato a livello rituale a ogni seduta del consumo mediatico ufficiale.»
Nella graduale scomparsa del mercato come luogo fisico e nella tendenziale identificazione della merce con la sua immagine (con il marchio o il logo) si compie un’intima simbiosi tra il mercato e i media. I confini si superano (in maniera profondamente tipica del postmoderno) e al posto della vecchia separazione tra cosa e concetto (o per meglio dire tra economia e cultura, base e sovrastruttura) prende progressivamente piede una indifferenziazione dei livelli. Si tratta di una circostanza molto diversa, afferma Jameson, dalla situazione storicamente precedente (vissuta dalla generazione nata negli anni quaranta e cinquanta) nella quale a una serie di segnali informativi (notizie di cronaca, pagine culturali, articoli) si aggiungeva una postilla che pubblicizzava un prodotto commerciale irrelato. Oggi invece non sono i prodotti commerciali del mercato a diventare immagini nella pubblicità, ma, al contrario, sono gli stessi processi narrativi e di intrattenimento della televisione commerciale che a loro volta si reificano e si trasformano in altrettante merci: si va dal serial a episodi, con i suoi segmenti temporali e le sue interruzioni ‘dal carattere formulaico e rigido’, a ciò che le riprese della telecamera fanno allo spazio, al racconto, ai personaggi e alla moda. L’euforia retorica del postmodernismo che accompagna poi il consumo mediatico del consumo fa sì che i prodotti formino una specie di gerarchia «…il cui apice è situato precisamente nella tecnologia della riproduzione, che si estende ormai ben oltre il classico televisore ed è arrivata in generale a incarnare la tecnologia dell’informazione e l’informatica della terza fase del capitalismo». La celebrazione dei processi di informatizzazione avanzata contribuisce del resto alla diffusione dell’idea della fine delle classi sociali, così come era avvenuto con la presenza del televisore nella case degli operai.
L’immagine che si fa realtà, i contenuti stessi dei media ormai mutati in merci, costituiscono dunque il nucleo concettuale dell’analisi di Jameson: «… penso che vada teorizzata una profonda trasformazione della sfera pubblica: la nascita de1 nuovo ambito della realtà dell’immagine, che è al contempo immaginario (narrativo) e reale (anche i personaggi dei serial sono intesi come vere star dotate di un “nome” e di storie esterne che si possono leggere). Come la vecchia e classica “sfera della cultura”, tale ambito diviene ormai semiautonomo e sta sospeso al di sopra della realtà, però con una fondamentale differenza storica; nel periodo classico la realtà persisteva indipendentemente da quella “sfera culturale” sentimentale e romantica, mentre adesso sembra avere perduto quel modo di esistere separato. Oggi la cultura ha un tale impatto sulla realtà al punto che rende problematica qualunque forma indipendente o, per così dire, non o extraculturale (in virtù di una specie di principio di Heisenberg della cultura di massa che si frappone tra l’occhio e la cosa in sé). E alla fine i teorici uniscono le loro voci nella nuova doxa, secondo cui il “referente» non esiste più.».
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