Appunti sul leghismo
Tra i tanti commenti sulle elezioni amministrative (che sono, in larga parte, politiche), la maggior parte si è concentrata sulla Lega Nord, la sola forza politica uscita, largamente, vincitrice dalla competizione. Nelle diverse analisi, segnalo quella limpida di Tito Boeri (“la Repubblica”, 4 aprile), il quale ha esposto le tre ragioni fondamentali del successo leghista. 1. Concessioni finanziarie a ceti produttivi del Nord, concessioni inique che pesano sulla collettività, ma hanno procurato voti. 2. Vantaggi fiscali alle piccole imprese, tradizionale serbatoio di voti per Bossi & C. E anche in questo caso il beneficio per una categoria, all’insegna del “non pagare le tasse”, o pagarle meno, grava su tutti noi. 3. Infine, la configurazione della Lega come solo vero partito politico in campo.
Tutte spiegazioni convincenti, anche se bisognose di numerose integrazioni. Ma il punto che intendo proporre qui ai miei così esigenti (e spesso critici) lettori, è un altro: i cambiamenti vistosi, che nel corso del suo ventennio di esistenza, la Lega ha realizzato, nella propria ideologia, nei propri comportamenti, nella propria tattica. La premessa è che la Lega rimane un soggetto politico di destra (altro che «costola della sinistra», di dalemiana memoria!), per la sostanza del suo messaggio ideologico, e per le classi sociali di riferimento, che, ovviamente, non sono le classi di manovra. In ogni caso, anche se non si condividesse questo mio giudizio, non si può non esser colpiti dal cambiamento di Bossi, che, agli occhi (forse deformanti) di uno studioso di storia, richiama quello di Benito Mussolini.
Costui, era, fino al 1914, un socialista della corrente degli intransigenti: i rivoluzionari, insomma. Scoppiata la guerra – il primo conflitto mondiale –, compì un mirabolante voltafaccia, rompendo la linea neutralista del PSI, e si fece paladino dell’interventismo. Poi, nel 1919, fondò su confuse parole d’ordine eversive i Fasci di Combattimento, reclutando reduci, sbandati, sottoproletari, e piccola borghesia confusa e frustrata, ma attirando nel contempo l’attenzione interessata dei ceti dominanti, specie agrari. Nel 1920, dopo il fiasco elettorale del novembre 1919, i Fasci, ormai ridotti a mal partito, cominciano una spettacolare conversione, mentre venivano “adottati” dagli agrari della Val Padana, e dalla borghesia finanziaria e imprenditoriale, che cominciò a finanziarli ad abundantiam: ed essi svolsero il ruolo di agenti militari contro il movimento operaio e contadino, sgominandolo.
Di pari passo, andò la loro “evoluzione ideologica”: i Fasci abbandonarono la “tendenzialità repubblicana” (come la chiamava Mussolini, un cinico che ambiva soltanto al potere e si definì in politica un “relativista assoluto”) e il dichiarato anticlericalismo. Il futuro duce aveva capito che non avrebbe vinto mettendo il suo movimento contro i poteri forti, dalla monarchia al Vaticano, con cui, nel 1929, avrebbe firmato i Patti Lateranensi con l’annesso Concordato, vergognoso cedimento dello Stato laico alla Chiesa confessionale.
Rapidamente, il socialista si cangiava in filocapitalista, come il neutralista si era rovesciato in interventista, l’antimilitarista in bellicista, e il liberista in corporativista e, ovviamente, il mangiapreti in baciapile: il sovversivo era diventato l’uomo d’ordine, anzi, l’Ordine in persona. Si trattò della più clamorosa conversione politica della storia italiana, anche se il cinismo dell’individuo Mussolini era rimasto sempre lo stesso, e la sostanza del movimento era di destra.
Come non vedere in controluce la figura di Umberto Bossi, estremista (di sinistra?), poi rivelatosi estremista della xenofobia, del razzismo, dell’antiegualitarismo? Un vero Mussolini della nostra epoca. Animale politico, fu definito quello allora, animale politico è stato definito questi, Bossi, oggi. Bossi “ha fiuto”, sentiamo dire da quando si è cominciato a parlarne; un altro modo – elegante – per dire cinismo opportunistico. E v’è chi ha parlato di carisma, addirittura; leader carismatico, Bossi; come leader carismatico sarebbe pure Berlusconi (peraltro diversissimo per vicenda personale, esponente di un’altra destra), che poco più di dieci anni or sono il devoto infedele capo della sedicente Padania appellava simpaticamente come “Lucky Berlusca”, o “il mafioso di Arcore“, e via insultando; mentre l’altro dichiarava, alla caduta del suo primo governo, “mai più con la Lega”.
Ma la conversione di Bossi, naturalmente, è stata ampia, pur non rinunciando a un lessico eversivo, nella schizofrenia di un “partito di lotta e di governo”: le parole d’ordine contro “Roma ladrona” sono sottaciute, ma non cessate del tutto; di tanto in tanto riaffiora dietro la parola magica “federalismo” la tentazione secessionista; e addirittura veniamo a sapere, a intermittenza, che le camicie verdi avrebbero pronti i fucili…
Tutto ciò per ora appare folclore, come i penosi riti celtici, ormai riposti nel cassetto, pronti come i fucili secessionisti a essere tirati fuori a beneficio delle telecamere: il neopaganesimo leghista e la vocazione antivaticana di Bossi (chi non ricorda le sue sparate verbali contro il papa?) si sono tramutati in esaltazione dell’«identità cristiana» dell’Italia (o della Padania?). E i suoi nuovi “governatori” del Veneto e del Piemonte hanno dichiarato all’indomani del voto di essere «per la vita», minacciando di «far marcire» la RU 486 nei magazzini, e così via: pieno ossequio alle direttive della Santa Sede, la quale, a rischio di essere travolta dallo scandalo permanente della pedofilia, non cessa il suo attacco alla legislazione di protezione della donna, in una scandalosa omertà della gran parte della “informazione”. E, intanto, il macho Bossi (il cui ictus, è di pubblico dominio, non è estraneo all’attività erotica), va a cena ogni lunedì dal suo protettore/protetto, il «mafioso di Arcore»: parleranno di donne, si suppone, loro comune interesse; ma intanto, nei momenti di sobrietà, delineano la strategia per impadronirsi del Paese, fin nelle sue più intime fibre. E gli uomini che agitavano il cappio a Montecitorio, incitando a “fare pulizia” dei corrotti, ne sono diventati gli alfieri, nel patto di ferro del loro leader con il principe della corruzione.
Un mio corrispondente, avvocato e fine commentatore politico (nello spazio semiprivato della sua mailing list), Vittorio Melandri, ha sottolineato le disinvolte piroette ideologiche del “senatùr”, e non ha esitato a definire la sua Lega Nord «il peggior movimento politico che si sia organizzato dalla liberazione ai giorni nostri, capace di reggersi sulle peggiori qualità e i peggiori istinti che albergano appunto anche nelle cosiddette “persone perbene”». Un movimento che fa leva, oltre che sulla paura dell’altro, oltre che sull’incitamento all’odio razziale, «sull’ignoranza e sugli istinti egoistici più gretti, che sono tutte caratteristiche che sono latenti in ciascuno di noi, di cui tutti dobbiamo avere sì, in questo caso paura, e tenere sotto controllo, e cercare aiuto per dominare».
Ammesso che si possa dare ragione a Melandri, ciò non deve significare che si debbano considerare avversari i leghisti, ossia gli aderenti al movimento di Bossi, o coloro che gli concedono il voto, in misura crescente, quasi costantemente, anche se con qualche alto e basso. In questi giorni arriva in libreria un’edizione critica (curata da Francesco Biscione per Einaudi) del Corso sugli avversari tenuto da Palmiro Togliatti a Mosca nel 1935, ai militanti comunisti italiani là rifugiati. Gli avversari erano i fascisti (infatti quel testo fu pubblicato per la prima volta nel 1970 col titolo Lezioni sul fascismo): ebbene, a prescindere dall’acutissima analisi del movimento mussoliniano, divenuto regime totalitario, quelle lezioni offrono insegnamenti utili anche per confrontarsi con il presente e con le sconfitte, ormai a ripetizione, della sinistra italiana. Quegli insegnamenti si possono ridurre a due: 1) non confondere le organizzazioni con i loro aderenti, dunque i partiti avversari con coloro che li votano; 2) non disprezzare questi ultimi. E, in generale, studiare con attenzione, senza pregiudizi, gli avversari, per capirli. Dunque, prenderli sul serio (insegnamento, peraltro, assolutamente gramsciano). Cosa che a lungo il movimento antifascista non fu in grado di fare verso il mussolinismo.
Forse è ora di prendere sul serio il leghismo. E studiarlo, se lo si vuole sconfiggere, facendo capire a chi vota per Bossi, di quali paure viscerali egli e i suoi ras, siano suscitatori, e di quali interessi reali siano portatori. Ma occorre altresì imparare da loro, che hanno a loro volta imparato dal Partito togliattiano di massa. La cui prima regola era la diffusione lenta, capillare, tenace del “verbo”. Ma il proselitismo comunista era fondato non soltanto sulle parole, bensì su una concreta politica del e sul “territorio” e sull’esempio della buona amministrazione.
La Lega, dunque, peggior movimento politico dell’Italia repubblicana, forse, in certo senso; ma anche il solo movimento emerso e salvatosi dalla catastrofe della Prima Repubblica. La prima lezione da trarre, comunque, rimane che forse i partiti non sono strumenti inutili; magari sono obsoleti, ma allora occorre sostituirli con altre forme organizzative per suscitare le passioni politiche, per organizzarle e dare forza ad esse. E, qui, chi ci sovviene, non è certo Bossi, né Mussolini, ma neppure Togliatti: è piuttosto, ancora, Antonio Gramsci, che ci invita a impostare un lavoro di “lunga lena”, che parta dalla cultura. Di là sempre bisogna prendere le mosse. “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”. E di intelligenza, oggi, la sinistra ha una drammatica, urgente necessità.
Angelo d’Orsi