Anticipazioni
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Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa
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Andrea Lanfranchi
Quattro inediti da Esodo
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Nota di lettura di Luigi Cannillo
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Nota di poetica
Scrivere, scrivere come un matto, direbbe il caro Luigi Di Ruscio, scrivere follemente con le dita che picchiano la loro musica sulla tastiera e con gli occhi aperti sul mondo, sulla complessa e controversa realtà delle cose. Scrivere per interpretare lo sguardo di chi si ha di fronte, o quello dell’animale portato al macello – scrivere, e dunque, ESSERCI! La poesia è erpice e terra, scava e si scava, è nella realtà e dunque oggetto di conoscenza e al contempo strumento di quella stessa conoscenza. È il ferro che ci inchioda alla nostra stessa croce anche quando i chiodi sono infissi nel corpo dell’altro. Il poeta può evocare il mondo o reinventarlo, immaginare, come dice Simone Weil ne Il peso e la grazia, di aggiungere peso laddove ne manchi affinché i due piatti della bilancia si riequilibrino e la poesia assolva al suo unico scopo – ammesso che ne abbia uno – e cioè di risarcire in qualche modo una mancanza. Questa osservazione, e questa posizione umana che rubo allo ieratico Heaney nel suo La riparazione della poesia, la faccio mia.
Lascio a questo luogo di pensiero, quattro brani tratti da una mia silloge inedita intitolata Esodo, nei cui testi, inizialmente destinati a un progetto per il teatro poi naufragato, tento di adottare una voce corale che vorrebbe raccogliere le voci dei contemporanei profughi di guerra. Ciò mi fa riflettere sul fatto che scrivere significa anche guardare dal lato che apparentemente non ci appartiene, e certe volte, se vogliamo, anche dal lato sbagliato.
Andrea Lanfranchi
Da Esodo
Poi adattarono le loro voci al vento
Per farle leggere
Erano pronti erano pronti da tempo
Da quando le loro madri li misero al mondo
Da quando la luce sfibrava i margini oltre le case
E poi quando la luce fu suono assordante e morte
Erano pronti ma non lo seppero fino alla deriva
Tutti con la stessa faccia le stesse ossa pesanti
Insieme nella ventura di cercare un’altra terra
Di consegnare ai loro figli un altro tempo
E riconoscersi ancora nel buio nella magrezza
Nella sola certezza di aver lasciato tutto
– Qualcuno forse nella speranza di poter tornare
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La voce degli uomini è simile in ogni angolo della terra
In ogni angolo della terra può togliere o dare
Così come l’odio sopprime e la carità accoglie
Lungo la loro strada i nostri figli capiranno
Che ci appartengono entrambi: odio e carità
I loro occhi hanno raccolto già molto
Sotto i loro passi si insediano i semi di un nuovo giorno
Sulle loro impronte nuovi fiori germoglieranno
Qualcuno li riconoscerà
Sulle loro facce stanche trova ancora rifugio la gioia
La loro gioia è il nostro riposo
La mano che Dio ci tende lascia sui loro volti un’eterna carezza
Accorgersi di questa grazia che perdura nonostante tutto
Accorgersi di questo è l’unico comandamento
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I nostri piedi toccano acque profonde – sotto di noi solo un vago riflesso
L’angelo della morte suona sempre il suo corno d’oro – ammalia
Orecchie intontite da un tiepido inverno
E ancora bandiere nere dettano il loro verso alla Storia
I cieli si riuniscono attoniti
Versano il loro carico di pioggia sulle macerie e l’incuria
L’indifferenza ha ragioni sottili e lascia appesi i corpi alle sbarre
Lascia mute le bocche nelle fosse
Cos’era la bellezza? – ti chiedi – e il sogno della bellezza?
Cosa fremeva dietro le nostre pupille?
L’ultima sponda sarà di neve – immacolata come un lino leggero
L’ultima sponda sarà chi non vedo e mi tende le mani nel sonno
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In questa massa di ignoti interminabili volti serrano le file
Ognuno sente il respiro dell’altro ognuno è l’altro respiro
Le assenze si sommano e pesano sulle nostre spalle
I nostri bagagli al confronto sono niente
Coi nostri figli che ci stringono i fianchi le nostre
Sagome scure che cercano i loro corpi come fantasmi
Per mare e per terra ci lasceremo una lunga notte alle spalle
Forse un giorno la racconteremo – forse qualcuno vorrà ascoltare
E dubitarne – giacché noi stessi un giorno ne dubiteremo
Capire che questa lunga notte non è solo nostra
Che nostre sono queste facce scavate fino all’osso
Ma quel buio – quello – è anche vostro
Ma forse no forse non è di questa notte che racconteremo
Forse diremo della gioia di andare – di una minestra calda mangiata insieme
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Nota biobibliografica
Andrea Lanfranchi è nato a Civitanova Marche, e attualmente vive e lavora a Fermo. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: vociverse (Ibiskos Ulivieri, Empoli 2009, Premio Autori per l’Europa); La Pesa (a cura di Eugenio De Signoribus per La Luna, Casette d’Ete di Sant’Elpidio a Mare 2010); cantiere in luce (CFR editore, Piateda 2014, Premio Fortini); La voce obliqua (Arcipelago Itaca – Premio Arcipelago Itaca e Finalista al premio Merini 2018); Il lato del silenzio (Ibiskos Ulivieri, Empoli 2021, Premio San Domenichino 2020). Sue sillogi e poesie sparse sono presenti in diverse antologie poetiche, su riviste letterarie e on-line.
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Nota di Lettura
I riferimenti poetici di Andrea Lanfranchi, esplicitati nella sua Nota, sono autorevoli e significativi: Luigi Di Ruscio, suo conterraneo, sullo scrivere come manifestazione insistita dell’esserci, “con gli occhi aperti sul mondo”, Simone Weil/ Seamus Heaney sul rapporto tra poesia e mancanza. Ma non meno importante risulta l’affermazione finale dello stesso Lanfranchi: “scrivere significa anche guardare dal lato che apparentemente non ci appartiene, e certe volte, se vogliamo, anche dal lato sbagliato”. Con queste premesse la lettura degli inediti assume particolare peso e senso. Aggiungerei comunque, non meno importante, la destinazione inizialmente ipotizzata per la silloge: un progetto teatrale che poi non si è realizzato. Troviamo così una presenza alternata di riflessione individuale e espressione collettiva, una sorta di doppia visuale che, a partire dal contesto specifico, comprende due percorsi: uno di approfondimento sulla propria singola identità e l’altro di espansione corale delle voci dei profughi di guerra – il lato questo che (apparentemente) “non ci appartiene”.
Questi due lati, oppure sensi o direzioni, vengono alternati anche visivamente con l’uso rispettivamente del carattere tondo e di quello corsivo, come già nella raccolta più recente di Lanfranchi, La voce obliqua, nella quale la stessa distinzione separa l’Io autorale dal flusso della voce corale, l’esposizione più descrittiva in terza persona plurale dal “noi” collettivo in controcanto. Con una accentuata estensione dello sguardo verso i fenomeni epocali che compongono e rappresentano l’Esodo, le sue radici e conseguenze: “La voce degli uomini è simile in ogni angolo della terra/ In ogni angolo della terra può togliere o dare/ Così come l’odio sopprime e la carità accoglie” Con l’odio si confronta la Grazia, la carezza divina: “accorgersi di questo è l’unico comandamento”, una forma di speranza. E alle “bandiere nere” si contrappongono le domande sulla Bellezza, e la rappresentazione di una ultima sponda che è pacificazione, aiuto e trapasso allo stesso tempo.
Lanfranchi orchestra le mosse e le voci dell’Esodo con grande vitalità espressiva. I testi, poesie, o “brani” come li definisce anche lo stesso autore, restano comunicativi sia nei riferimenti ai concetti astratti (indifferenza, Grazia, bellezza) che sul piano delle figure: l’angelo della morte, le bandiere nere, i semi di un nuovo giorno. Il meccanismo delle ripetizioni contribuisce a tenere alti la tensione e il ritmo ascendente, in particolare in vista delle chiuse: “Accorgersi di questa grazia che perdure nonostante tutto/ Accorgersi di questo è l’unico comandamento” oppure: “L’ultima sponda sarà di neve – immacolata come un lino leggero/ L’ultima sponda sarà di chi non vedo e mi tende le mani nel sonno” e soprattutto nell’ultimo testo della serie: “Ma forse no forse non è di questa notte che racconteremo/ Forse diremo della gioia di andare – di una minestra calda mangiata insieme”. Oltre che a una intenzione poetico ritmica, le anafore rispondono alla originaria funzione drammaturgica e alla tensione etica. E questo ultimo elemento, sempre essenziale nella poetica di Lanfranchi, trova qui uno scenario particolarmente adatto, nel quale, proprio confrontandoci con la contemporaneità, possiamo percepire come nostri i chiodi “infissi nel corpo dell’altro”.
Luigi Cannillo