SMERILLIANA.
Luogo di civiltà poetiche – Librati, n. 10 – 2009, pagine 493, euro 20.
Di Franco Romanò.
È un compito difficile ma molto gratificante quello di recensire una rivista come Smerilliana, per la quantità e la qualità della proposta, un libro vero e proprio, un annuario piuttosto che una rivista tradizionale, di cui però mantiene alcuni aspetti inconfondibili, a cominciare dal formato e dalla copertina che è sempre la riproduzione di un quadro intero o di un suo frammento e costituisce fin dal primo numero un tratto distintivo che il lettore riconosce subito, prima d’iniziare a sfogliarla.
La struttura della rivista, sostanzialmente inalterata dal primo numero a oggi, sono le sue rubriche o sezioni: Editoriale, In limine, Poeti italiani, Poeti stranieri, Le conversazioni, Arcipelago, Rasa, Violazione di domicilio, Finis. Ognuna di esse ha un suo preciso senso. I testi e i saggi pubblicati confermano una linea che Smerilliana persegue fin dalle sue origini: selezione accurata, competenza linguistica e culturale rispetto alle aree geografiche scelte, vastità dello sguardo, che peraltro corrisponde alle intenzioni dichiarate nel sottotitolo: Luogo di civiltà poetiche.
Il panorama di questo numero spazia dall’India (Kunvar Narayan per la traduzione di Roberta Sequi), alla Croazia (Nikola Šop, traduzione di Dubravko Pŭsek e introduzione di Zvonimir Mrkinjić), alla Spagna (Carlos Sánchez, con una nota introduttiva di Enrico D’Angelo), la Francia con Michel Leiris (traduzione di Alberto Toni), la Germania (Helmut Seethaler nella traduzione di Giò Batta Bucciol), l’Africa di Mugyabuso Mulokozi (nella traduzione dallo swahili di Elena Zúbková Bertoncini). A chiusura della sezione poeti stranieri, infine, una preziosa traduzione dal sanscrito in ottava rima, di Michele Kerbaker, de “Il supremo fine” dal Mahābāhrata.
Altrettanto ricca e accurata la sezione dedicata ai poeti italiani (Cristina Alziati, Francesco Giusti, Guido Oldani, Paolo Gentiluomo, Mia Lecomte, Carlo Cipparrone, Marco Simonelli).
A tutto questo, recentemente (è la seconda volta che ciò avviene), si è aggiunto il dibattito redazionale, previsto all’interno della sezione Le conversazioni, che affronta ogni volta un tema diverso. È proprio da tale novità che vorrei partire, anche perché in questo numero la discussione affonda con coraggio il coltello nella piaga che affligge la società letteraria contemporanea. Ne sono protagonisti, insieme al direttore e all’intera redazione, Alfredo Luzi, Massimo Raffaelli e Francesco Scarabicchi.
È un dibattito a più voci, dal quale emergono posizioni ovviamente differenti, ma tutte accomunate dal coraggio di non girare intorno ai problemi, con false diplomazie, ma di affrontarli.
L’accusato principale è il ‘900 e infatti il titolo che gli autori hanno voluto dare alla loro riflessione corale è proprio Sopravvivere al Novecento. Lo spunto di partenza è dato da due citazioni: la prima da Roland Barthes, la seconda da Ingeborg Bachman. A distanza di anni, entrambe ruotano intorno a una constatazione: il venir meno dello statuto di autorevolezza e prestigio di cui godevano gli scrittori fino alla prima metà del secolo scorso. La cesura, per Barhes, è avvenuta alla fine della seconda guerra mondiale: “…Dalla Liberazione in poi, il mito del grande scrittore francese, sacro depositario di tutti i valori superiori si sgretola…” (pag. 235.) Riferendosi poi al ’68 così prosegue, nella stessa pagina: “… il maggio ’68 ha reso palese la crisi dell’insegnamento:.. la letteratura è desacralizzata,…non è che sia distrutta, è che non è più custodita…”
La Bachman rileva lo stesso male di fondo, anche se la sua analisi sembra in definitiva più sfumata: “…Le carenze che si possono osservare qui e là… non hanno a che fare con i ferri del mestiere… Ci sono alcuni giovani scrittori che non soltanto hanno talento, ma che dispongono di mezzi stilistici quasi senza fatica… Credo che operino con le conquiste stilistiche di altri, rinunciando così essi stessi a fare delle conquiste… È questo che si avverte come carenza: l’insincerità, il senso di raccogliticcio… Infine, però questo non vale solo per gli scrittori più giovani, ma anche per gli altri ed è valso in ogni epoca.” (pag. 236.)
Il pessimismo della Bachman sembra, in questa parte finale più radicale che non quello di Bathes, prefigurando anche la deriva attuale, sebbene la scrittrice austriaca concluda il suo ragionamento estendendo anche al passato la sua analisi.
Barthes, d’altro canto, sembra rientrare maggiormente nei canoni del disincanto, tipico del postmoderno, ma che lo scrittore francese sembra accettare come una sventura inevitabile.
Tali spunti iniziali vengono raccolti prima di tutto ponendo il problema della scuola e dell’insegnamento (Antonio Tricomi) e della difficoltà di trasmettere e riproporre ai giovani i grandi modelli classici della letteratura quando anche per gli studiosi e per gran parte dell’intellighenzia e quindi non solo, per la “società dei consumi di massa… non si è più sicuri che “…Dante sia Dante o possa tornare a essere Dante…” (pag. 237). Luzi, a partire dall’analisi di Tricomi, rileva come non sia un caso che la redazione abbia scelto per iniziare il dibattito di citare “due autorità” (pag.240) e manifesta apertamente il proprio imbarazzo verso la prassi dell’auto legittimazione da parte dei giovani autori e fa alcuni esempi di antologie pubblicate in questi anni. Tale constatazione (ma giovani non sono certo i soli responsabili e i padri vengono subito chiamati in causa), rimanda allo statuto della critica, fortemente indebolito dalla “proliferazione delle pubblicazioni” e “… dai mezzi tecnologici che… rendono facile smerciare – con sempre meno ascolto – libri in serie.” (Enrico D’Angelo, pag. 242.) Tutto questo porta a quella che Luzi definisce “inciviltà letteraria”, concetto che trovo affine a quello barthiano di una letteratura non più custodita. Luzi, però, rileva anche come vi sia una carenza d’esperienza alla base di certa falsa poesia contemporanea. Come reagire a tutto ciò? Per Mariella De Santis, una rivista deve stabilire regole precise in tema di recensioni se vuole essere credibile e saper far questo è già un contributo al risanamento ambientale (“modesta militanza” la definisce De Santis a pag. 252) di cui c’è gran bisogno. Nell’intervento di Francesco Scarabicchi vengono ripresi i temi già considerati dagli altri con un giudizio critico verso chi manda manoscritti e non chiede mai un parere sui testi e un confronto, ma solo un aiuto a trovare un editore. Partendo da questa constatazione generale, però, Scarabicchi si domanda “… se la nostra poca sia un’epoca che può accogliere l’arte, qualsiasi arte…” pag. 256.
Dall’insieme degli interventi emerge perciò una posizione critica verso l’atteggiamento comune a molte antologie negli ultimi anni: non avere alcuna linea interpretativa e critica nei confronti della mole di testi circolanti, ma di limitarsi alla mappatura del territorio poetico. Il prosieguo apre un altro fronte, ma sposta anche l’accento sulla critica al postmoderno piuttosto che all’intero ‘900: lo fa, per esempio, Raffaelli, che chiama in causa Frederick Jameson, lo studioso forse più importante del postmodernismo.
Non è compito del recensore entrare nel merito delle diverse posizioni, né pretendo di aver dato un quadro esaustivo di un dibattito che è fatto anche si sfumature sulle quali si potrebbe rimanere a lungo. Quello che mi sembra importante è che esso pone un problema di fondo per tutti, senza chiamarsene fuori e sottolineando fortemente due concetti: la necessità di compiere delle scelte, dicendo sempre più spesso dei no motivati e riproporre la necessità di tornare a “interrogare la tradizione”, come riporta un passaggio dell’intervento di Raffaelli, che cita a sua volta Michele Ranchetti. Solo così, forse, si può ricominciare a ricostruire un tessuto letterario e anche un pubblico della poesia “azzerato”, secondo Alessandro Centinaro, proprio dai letterati.
La seconda area tematica su cui vorrei attirare l’attenzione del lettore, anche per via della sua obiettiva novità, è quella dedicata al Camp, parola sufficientemente misteriosa e che sta a identificare, più che una tendenza estetica, un mood come direbbero gli inglesi, un’atmosfera, uno stato d’animo che si può percepire trasversalmente in opere molto diverse fra loro, appartenenti allo stesso genere o meno e che ha a che fare con l’eccentrico e con il kitsch. Non penso con questo di avere dato una definizione esauriente di tale fenomeno ma per questo rimando sia alla conversazione di Mariella De Santis con Fabio Cleto sia al saggio successivo su Campo e copia di David Bergman, per la traduzione di Anthony Robbins e Vincenzo Del Vecchio, che aprono la sezione Arcipelago; la quale non si esaurisce tuttavia con quegli interventi. Ritorna infatti il discorso su poesia e musica (Giacomo Guidetti), già presente in altri numeri della rivista, due saggi sulla poesia di Franco Scataglini e Iolanda Insana scritti da Elena Frontaloni e da Marco Gatto rispettivamente; infine Anthony Robbins su Self e complexity nella poesia inglese.
Nella sezione Rasa, dedicata alle recensioni, spiccano in particolare fra gli altri, il saggio di Alessandro Centinaro dedicato ai giovani poeti russi e un lungo e articolato saggio di Marco Gatto sulla poesia di Lenzini. Per Finis Federico Scarmuccia introduce Fior di lattice, quattro ninfe disegnate da Laura Spianelli: il volume termina con la vignetta di Emidio Giovannozzi.
Vorrei concludere questa panoramica necessariamente breve, anche per lasciare al lettore in gusto della propria scoperta, dedicando qualche parola alle sezioni Violazione di domicilio e Sguardi.
La prima delle due è una rubrica assai singolare e intrigante perché non ha mai un tema preciso; si tratta di spigolature, alla ricerca di riflessioni e testi non sempre appartenenti a generi precisi, ma sempre interessanti. In questo numero spicca uno scritto di Stevenson, che parla di una rivista universitaria del suo tempo, ma specialmente della sua formazione letteraria e del suo tirocinio per diventare scrittore: nel brano affiora anche la parola ozio, di cui il grande scrittore veniva accusato e che lui difende nel senso di ozio letterario, che in realtà è il duro lavoro cui l’autore si sottomette per imparare a scrivere; quello che forse manca, insieme all’umiltà, a molti autori contemporanei.
Il brano di Stevenson è seguito da un frammento dell’umorista in lingua urdu Ahmad Shāh Buhkārī e intitolato Decadenza (traduzione di Alessandro Bausani), da un racconto di Peter Stamm tradotto da Bucciol, da una testimonianza reportage su San Giovanni Rotondo, dal quale esce un ritratto della cittadina pugliese che una volta tanto non ci parla solo di Padre Pio e, per concludere, un racconto di Marilena Renda.
Gli Sguardi, infine sono una lunga e dolente sequenza fotografica di Ennio Brilli, dedicata alla città dell’Aquila, alla tragedia del terremoto, seguita aihnoi!, da altre e ben più devastanti tragedie che degradano il tessuto civile di questo disgraziato paese. La sequenza fotografica è un esempio di testimonianza civile che di aggiunge ai molti meriti di Smerilliana.
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