La lingua muta delle tracce.di Francesco Marotta

Pubblicato il 12 maggio 2008 su Scrittura e Letture da Maurizio Baldini

La lingua muta delle tracce

Francesco Marotta

C’è un’intera sezione, nella pregevole opera di esordio di Daniele De Angelis (cfr. Diario di un altro, Ascoli Piceno, Otium Edizioni, 2007), quella intitolata “Sul volto”, con particolare riferimento ai testi III e IV, nella quale è possibile ravvisare, più che in altri luoghi notevoli di quel  libro, la radice prima degli inediti che qui si presentano, nella loro non indifferente novità, anche stilisticamente marcata. Complessivamente, pagine di versi che prefigurano una possibile partitura per coro muto, quasi reticoli di labbra, in attesa di aria e suono, che si espandono “senza indice di fine”: un sostanziale taglio sospensivo, di sguardo e di respiro, che si presenta, contemporaneamente, nella duplicità di un corpo, anche sotto il profilo segnico, che guarda se stesso dai margini, mentre il suo calco solare si abbandona e si appartiene all’ombra.

Da una parte, l’approdo, sia pure provvisorio, dopo una faticosa (e amorosa, dolente) traversata tra le crepe dei giorni, a una stazione di sillabe che brillano come un saldo inevaso; dall’altra, l’humus colmo di linfe in attesa, sopite in cristallizzate zolle invernali, da cui può scaturire la mobile fioritura dei passi futuri, il dettato inespresso di ogni nota a venire. E’ un taglio che sospende il fragile e intermittente legame tra quiete e cammino, tra silenzio e parola; un taglio infetto, spianato di ogni certezza e ipotesi di cura, che, nel suo essere testimone di ferita, costringe la pupilla a indagare non tanto, o non più, (solo) lo spazio superstite intorno ai bordi lacerati, il paesaggio familiare, comunque identificabile sulla mappa della propria storia personale, di un’orma, di una speranza, di un suono capace di distinguersi per forza propria dal nulla di pensiero, fosse anche per un attimo e in natura di flebile eco – di stagliarsi, in definitiva, nella sua unicità, col suo carico di immagini raccolte nella traversata, ben al di sopra del rituale caotico, senza specchio di rive e senza voci definibili, della risacca inarrestabile; il taglio ultimo, senza innesti e senza spiragli o varchi per possibili punti di sutura, che apre alla visione soltanto il vuoto pulsante sospeso all’interno della materia sezionata e ammutolita, dove non vi è possibilità alcuna di risalita, dove anche la necessità del canto diventa fuga senza meta e senza alfabeto, perché la visione stessa, qui, si colora del suo stesso precipitare, si fa traccia, forse un indizio appena intravisto, della sua presenza oracolare, trasparente e silente, senza idoli e senza templi.

Qui vale “il gioco dei contrari”, e la “differenza esatta”, “incidente”, tra sguardo e voce, è la rivelazione presagita di un’assenza accolta senza stupore, una perdita di senso, un cedere al vuoto di ogni possibilità di ricostruzione di un volto, che nemmeno l’inserto sapienziale, figlio di una oralità resistente alla maceria (tanto caro alla memoria scritta, impressa come un sigillo, dell’autore del “diario”), riesce a colmare.

La nota più evidente, infatti, rispetto al dettato del “diario”, è la perdita di unicità e identità di sguardo tra l’io e l’altro, tra la percezione di sé come parola che dice l’esistente, attraversandolo a pelo di lingua, e la registrazione memoriale che impregna la pupilla profonda, la tensione dell’alterità a farsi voce, di tutti gli umori e delle sostanze nascoste tra le pieghe e gli anfratti di un reale talmente stratificato che, di fronte al suo peso, ogni alfabeto possibile è uno stelo che si piega sotto un carico di cielo incapace di reggere. L’adozione, come strutture-boe del testo, della terza persona e del tempo di un farsi imperfetto e fluttuante, non denuncia solo il superamento di quella specifica dualità-identità, ma è anche un tentativo, su altre basi, affatto nuove e per certi versi sperimentali, di recupero della spazialità del canto narrante, di una oralità che si presenta, ora, non più come àncora del possibile e della rigenerazione, ma come consapevolezza netta della “perdita”, del vuoto. Perché proprio riordinando i materiali che l’altro ha catalogato, annotato e chiosato tra le sue pagine, ci si accorge che esse registrano nient’altro che la disillusa visione di cui l’io stesso si ammantava nel suo pellegrinaggio tra i paesaggi pietrificati del presente: la certezza che nessuna memoria resiste e rinasce ai/dai suoi silenzi; che anche l’osservazione più attenta di ciò che accade sotto i nostri occhi, e si fa cronaca o storia condivisa, non serve a restituirci il senso del suo epifanico baluginare nell’attimo, del suo trascorrere e svanire nei giorni, non aggiunge nessuna nota di verità alla consapevolezza dell’ordine immutato del reale. Il reale, il senso, se pure esiste, che in esso si cela e si fa uno con quanto appare e mai ci appartiene, è sempre un passo oltre la mobile linea dello sguardo che cerca di afferrarlo.

Così, la partecipazione, mai del tutto sottaciuta, al dolore delle “tracce”, diventa inutile sforzo di ricostruzione di una figura che rimane pur sempre priva di sangue, se manca la consapevolezza che quell’indizio ci appartiene in profondità, e osservarlo nei segni che marcano il passaggio e la trasparenza dell’altro, non è  che un estremo riconoscerci goccia dello stesso sangue nel mare fossile che bordeggia tra gli orli feriti di una sola orma.

E’ qui lo scarto rispetto alla annotazione (comunque rassicurante) di un dato che, pur sanguinando di/nel presente, si riscattava, nel “diario”, sedimentandosi nella memorialità sicura, anche se inquieta e a volte appena avvertita, dell’altro, in una oralità sempre recuperabile in chiave di futuro e in proiezione all’oltranza utopica: uno scarto che non prefigura il salto nel “nullesia” di voce e di pensiero, lo sbocco in una nichilistica, immobile presa d’atto dell’indecifrabile. Anzi: la consapevolezza della frattura tra senso e apparenza che ogni immagine e ogni accaduto si porta dentro come intima coessenzialità col proprio sguardo, è già un ponte gettato tra abisso e abisso nei vuoti della “ferita”.  Se anche “fu sospetto restare con niente”, e fermarsi a “ragionare ogni respiro” diventa imperativo etico, l’unico, per ogni proposta di scrittura che aspira, comunque, a farsi dono condiviso, l’occhio che aggruma non è che pensiero del vuoto di storia che stringe, l’unica certezza, per chi dipinge segni, di poter guidare la mano a definirne il profilo con linee nuove di movimento e voce.

La tensione a sezionare il dato fino a ridurre in frammento anche la fibra più profonda, per meglio osservarla e conservarla (a partire dall’eco ritmata del proprio stesso passo e del proprio respiro), tensione già avvertibile nel “diario”, qui si presenta come capacità di auscultazione indiziaria, non più della scheggia ma dell’evento nella sua totalità di res transeunte, irriducibile alla grammatica delle tracce che esso stesso lascia, in tutto il suo tragitto verso-dove. Qui, in questi testi, quindi, la traccia non è più indizio di una vita già stata o che si dà all’istante, ma è vita nel suo dirsi, vita che chiede all’occhio che ascolta non il giudizio che riassume e cataloga, ma la consapevolezza, cosciente in ogni sguardo, che la “ricostruzione”, la “rimembranza” non è mai un’operazione che approda al vero, fosse anche la verità apparente che dagli oggetti sembra parlarci con voce traducibile: perché è solo cercando un legame “da farsi” tra tracce scomposte di vuoto (quel legame di assenze che solo la poesia sa intrecciare), che si ricostruisce la dimora di un senso dalle ceneri ormai raggelate del senso: una possibilità di vita altra che è già orizzonte di una leggibilità senza residui, esistenza che si dà nel suo essere luogo di ciò che è, non di ciò che significa.

25 settembre 2007

L’escursione

(I versanti cedono avvalli

nell’accostarsi, v

dal percorso indifferente, dove la neve

lascia l’erba più grassa)

Così ricontava le direzioni

girando la testa;

(dalla cima svettano altre cime

e paesi cerchiati da uniche strade

d’andata e ritorno; attorno

il massiccio è uno spazio

di gobbe e borri,

che si spande senza indice di fine,

ed ogni cresta

diventa confine. Un luogo

che ovunque è luogo,

e sentieri affiorano dove i passi

restano terra e sassi)

***

Il pescatore

– Ci sta’ le volte che li ripeschiamo,

a tirare sulla barca le reti,

assieme a pesci e calamari

i morti… quelli dei barconi

e dei gommoni vecchi quanto il mare,

a fondo, sotto al peso della calca,

per la spinta in più di qualche onda… corpi

di negri arabi africani,

che chi sa quanti ne restano

a sparire sotto, tra sabbia e morsi… –

Non c’era vento a smuovere nulla

ne’ funi, ne’ spuma, neppure odori;

e allora l’acqua sulla tolda

sopra i pontili ed il molo, sopra la pelle,

gli sembrava in altre gocce camuffare

gli spazi certi del sudore, il sale

con il sale.

***

L’incidente

Disseminati svrecchi tra i chilometri,

pneumatici riassunti sull’asfalto;

tra tanti simili

vale il gioco dei contrari,

la differenza esatta.

Nella piazzola l’auto spenta,

la sua ombra mobile, rovente,

i finestrini abbassati ad indicare meglio

– lì sul guardrail, lo vedi quel bozzo?

lì immagina il primo colpo…

poi il rimbalzo ed il ritorno

al centro della strada, lo schianto

contro al cemento dello spartitraffico…

ed ancora un riandare, dall’altra parte

a tranciare lamiere con lamiere –

Le inflesse contorsioni del ferro

ai lati del varco,

rilucevano sempre più distanti

nel bruciore degli occhi,

ed i frammenti a terra

di vetri dentro segni di gesso,

come a segnalare lavori in corso,

un imbocco già pronto

per uno svincolo a venire,

teso verso i campi, teso verso il bosco.

***

Il suicida

Inattesa ogni volta, era l’ultima curva

a gomito, prima della serpentina sterrarta;

un segmento di case allignate lungo i bordi,

di parcheggi risicati negli slarghi.

(Dalla rimessa degli attrezzi, quella mattina,

salì fino al balcone una nuvola nera,

sulle finestre a posarsi cenere,

come un segnale di fumo a chi lo cercava

a ridosso dei campi)

(Ancora, la tettoia ondulata e combusta,

i mattoni calcinati; in due lo tirarono

fuori, un corpo spento a coperte

e secchiate, un tizzone

che nelle strette delle mani, sgranava)

***
L’imbianchino

All’improvviso a sniffare l’aria della stanza,

ritrovarsi come cani

ragionando ogni respiro,

cogliere il segnale familiare, immaginarlo

impresso sopra al muro

sotto intonaco e vernice; un odore rappreso

un alone d’una qualche secrezione, umore

di neglette giornate.

(Questo appartamento

non ha mai conosciuto tanto sole

come adesso, vuotato e sfitto

d’ogni orpello); la luce come l’eco

sulle pareti piatte e bianche;

(da lucidare e spolverare

restano piastrelle e porte impiallacciate)

(Restasse vuoto, senza parole) pensava

(oppure occupato da marocchini

e senegalesi, cingalesi indiani

e nigeriani, cinesi e rom,

pachistani; tutte le stanze colme

fino all’eccesso, fino a coprire

di vesti e scarpe ogni minimo strapunto,

e sulla calce altri segni, altri raspi;

disabitato in un istante, in una notte,

prima delle volanti)

***
Il bosco

Glielo disse apertamente

come stesse investigando

– Il suo racconto

sulla storia della bimba? –

– Ne so quanto tutti gli altri –

gli rispose dal gradino

– solo che ci passarono settimane

là dentro al bosco,

con i cani i pali e tutto il resto,

misurando e numerando e catalogando

ogni foglia ramo o sasso,

rivoltando per intero le cortecce;

e quando se ne andarono sembrava

non si fosse impresso nulla;

e fu sospetto restare con niente,

neppure uno strappo di veste o pelle,

neppure una ciocca tra la ramaglia;

certo è stato il vento, la pioggia, il secco

i corvi e le bestie… certo lì dentro

dove incessante è il settaccio

e il fugare d’ogni cosa. –

Quasi uno scherzo lo spiazzo di terra,

la distanza, tra la case ed i tronchi.

Daniele De Angelis è nato ad Ascoli Piceno nel 1981. Si è laureato in Conservazione dei Beni Culturali presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Perugia con una tesi sul pittore Tullio Pericoli. Nel 2001 ha fondato assieme ad alcuni amici l’associazione culturale “Biblioteca di Babele” e la relativa rivista. Nel 2004 insieme a Davide Nota ha fondato il foglio quadrimestrale di poesia e realtà “La Gru”. Nel 2006 insieme ad Andrea Tosti ha dato vita al portale di audiocultura “Enne” (www.figlidienneenne.it). Sue poesie sono apparse nell’antologia “L’arcano fascino dell’amore tradito, tributo a Dario Bellezza” (Perrone Editore) e nella rivista “Ciminiera”, oltre che su vari siti internet. Nel 2007 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie, “Diario di un altro” per la “Otium Edizioni” (www.otiumedizioni.com).

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