Convegno Antonio Porta-Atti

Pubblicato il 20 dicembre 2009 su Eventi Milanocosa da Adam Vaccaro

“Le radici dell’erba dipinta”

Porta e Spatola, due testualità, una lettura *

Gio Ferri

Il piacere e il dramma delle neoavanguardie poetiche del secondo dopoguerra consistono essenzialmente nella coscienza critica del fare. Di una parola che vuole spezzare apertamente le barriere di un significato univoco, tanto banale quanto oppressivo, per rivolgersi – tra felicità ludiche, amorose, pericoli, abissi insoluzioni autodistruttive – ai territori del significante come segno polivalente e metamorfico. In cui la comunicazione si faccia comunione, carnalità e sensitività testuale, materialità biologica. Una propensione che viene anche da lontano, dal secolo XIX, ma che trova anche oggi nella crisi totale (cioè nella poesia come crisi) la prova inequivocabile di una disincantata coscienza e di una programmatica autocritica. E’ sull’abîme che la poesia delle neoavanguardie, e, oltre le neoavanguardie, la poesia attuale (quando sia poesia! E solo i singoli testi ce lo possono dire…) cercano la loro plausibilità.

Alla prova dei testi sembra che la partita – giunta a certi illimitabili limiti, che parrebbero estremi (ma non lo sono, perché fin che ci sono vita e poesia, c’è sempre un alro orizzonte), sia sta giocata su due dimensioni. Una, direi, orizzontale, alla conquista di spazialità aperte e materialistiche, essenzialmente formali anche in senso puramente visivo-scritturale; l’altra verticale, alla ricezione delle sonorità sommesse e sommosse dell’inconscio.

L’una corporale e totale e totalizzante – l’altra magmatica di senso. Da una parte la parola che si rivela ‘oltre’ se stessa, dall’altra la parola che si condensa nel profondo. Insieme, comunque, momento comune del dire come fare (poiéin) ontologico.In queste evenienze ho detto ancora del binomio Spatola-Porta. Per un rischio orizzontale, spaziale il primo, verticale il secondo.

I loro testi, comunque, hanno in comune la cosciente ricerca e la profonda esaltazione della libertà della parola. Spatola per rivelare i suoi mondi nuovi si è spinto, orizzontalmente, oltre ogni confine territoriale, esplodendo nella totalità scrittoria e gestuale di un fare tutto nel fare.

Porta si è prolificamente chiuso, fermo e verticale, nella verbalità coerente, nella misura spiralica di un fare tutto e solo, o essenzialmente, nel dire. Spatola con sfrontatezza è nella parola, vorrei dire, esplosiva.

Porta appare infine in una parola pudìca, una scrittura intimistica anche quando sia sollecitata da una certa quotidianità, nella apparenza (solo apparenza), sovente, del ‘luogo comune’. Spatola denuda la parola poetica: la espone nella sua esaltante eroticità persino al ludibrio.

Porta occulta la parola poetica e ne affida la nascita amorosa e amorevole alla appartata discrezione della sommessa, soggettiva scrittura. Per la verità anche Porta si è lasciato trascinare (sovente fino al 1975, se ricordo bene) da una stimolazione ludica e dissacratoria, ma, infine è approdato alla spiaggia di un sentimento (forte, non certo sdolcinato) della solitudine, della sacralità del dire in silenzio.

Anche Spatola è stato – come banalmente si suol dire – lineare: ma la sua linearità è quasi sempre sussultante, ondulante, mordente, paratattica. Leggiamo, per esempio, di Porta, “Per il giorno che viene. Osservando un dipinto di W.Xerra”, da Invasioni del 1983:

Radici ha l’erba dipinta? Quali

radici il tempio disteso sull’erba? le stesse

radici per le colonne e la mano

che le dipinge? e la ginestra che sbuca dal niente

e sul niente si alza a quale fine vortica?

(nello stesso istante scendere e salire

poche nere parole dentro uno specchio).

Per lo specchio che affonda nel latte?

E quale nascosta mammella inonda lo specchio?

Da quale screpolatura filtra

il fiato della parola malinconia?

(distillazione di veleni desiderati subito rifiutati)

E’ un’alba tra fiori nei vortici del gelo

si stringono angeli e insetti. Degli uomini

si fonda la scrittura, attraverso il colore mobile

pensato per il giorno che viene.

E’ un testo di compatta fisicità anche visiva (differentemente da altre poesia coeve in cui il discorso si esaurisce fino ai versi bi/monosillabi): offerto, tuttavia, alla lettura ansiosa (vorticante) delle domande e distesa nelle esplicative risposte. Ma determinante è quella sottile analisi (favorita da oscure insistite analogie) del passaggio dal segno (pittorico) alla scrittura. In quel gesto verbale (sorprendente e irrapresentabile metafisica) che attraverso il rovesciamento speculare (ricordate Alice che si chiede: di che sapore e di che colore sarà il latte nell’universo rovesciato oltre lo specchio?) si fa, oltre la figuratività pittorica, in qualche modo icastica, parola fondativa. Parola unica, fra la bipolarità dell’essere e del non essere. Assurda eppure materica e viva. E’ il trionfo del dire, oltre il fare medesimo. Anzi, il fare, solo è nel detto. Ma entro gli spazi della discrezione profonda, in cui assolutamente sconosciuta è la logorrea e ogni discorsività millantatoria o vanamente incantatrice.

Vorrei dire ora dei Zeroglifici di Spatola, e in particolare di uno Zeroglifico estremo, estremista da “Tam Tam” n.14-16 del 1977. Ma qui non si può proiettare: possiamo solo immaginarlo (ma chi non conosce i Zeroglifici?). Si tratta di un coagulo, su un foglio sfrangiato di tronconi di lettere e di numeri, e di interpunzioni…

Certo, la figuratività a prima vista sembrerebbe invadente: ma a leggere (dico leggere) attentamente si scoprono valenze del tutto discorsive, ancorché espresse ideogrammaticamente. Ma non sono infine ideogrammatici anche alcuni oscuri versi-gesti-scritture del Porta di “Per il giorno che viene”?

Si legge, in questo Zeroglifico, di un captolo di un racconto – la pagina strappata da un block-notes, con la ritmicità della dentellatura a sinistra. Un vortice assai più vicino al flusso di coscienza che alla geometria, ancorché frattale.

Si tratta, in verità, di una comunicazione affidata alla comunione delle materie e dei segni alfabetici e numerici; di un alfabeto ritmico e afasico insieme, di un autismo dell’idioma, di una numerazione esoterica, magica, cerimoniale, perciò cantabile.

In una parola qui si legge della parola, come principio e fine dell’universo. Ma ciò è detto senza ritegno: frullando spavaldamente l’idea della spiralità centrifuga dell’ideogramma.

Per entrambi i testi, comunque, valgono le metodoligie di lettura classiche, dalla retorica, alla semiotica, alla stilistica. E la loro visività e così strettamente coinvolta nella parola e nella sua storia e presenza ideali che nessun strumento squisitamente figurativo-iconografico può coerentemente sorreggerci, nemmeno per il testo di Spatola. Ma neppure per l’osservazione del dipinto di Xerra, in Per il giorno che viene di Porta. Infine, in entrambe le poesie emergono (sommessamente in Porta, platealmente in Spatola) prolifiche presenze analogico-verbali.

Più mi convinco – ma so benissimo di non essere sempre compreso in proposito – che la poesia dovrà, se vorrà essere, far fluire la parola come matericità definitoria, creativa dell’essere medesimo, nell’alveo naturale della fluidità cosmico-biologica. Riportare la parola alla sua origine materico-vitale.

Spatola ha fatto un gran lavoro in questo senso, gestualizzando il verbo nei ritmi della fisiologia. Ma Porta non è stato da meno nel respirare sommessamente, in silenzio, il soffio vitale della verbalità.

* Estratto sintetico dal saggio “Spatola e Porta: due testualità, una lettura” già pubblicato in

“TESTUALE, critica della poesia contemporanea” n.12/1991.

5 comments

  1. Più semplicemente:Porta era uomo di sistema e del sistema,faceva parte dell’apparato.Vedi adiacenze con i vari capibastone milanesi Raboni, Cucchi, Majorino,ecc.Ben ammanicati nell’editoria maggiore.
    Spatola era il nuovo povero Cristo del lavoro artigianale, della ricerca toutcourt, antiborghese per eccellenza; Porta ovviamente il contrario.Spatola era e rimane un grande, Porta uno dei tanti poeti dozzinali, ma rimane perchè appunto finchè durerà la chiesa cattolica-romana dell’editoria e del potere ‘culturale’, i valdesi saranno sempre a Torre Pelice a parlarsi addosso e a contarsi:quattro gatti.

  2. gio ferri ha detto:

    Caro Antonio
    d’accordo sulle questioni di “Porta-Potere letterario e no, ecc.”. Tuttavia se la produzione di Porta nell’insieme non è eccelsa non si devono, a mio avviso, trascurare alcuni “segni” e alcune “iniziative” per quei tempi innovativi e di qualità. Certo un’opera comunque superiorea quelle, per esempio, di Raboni o di Cucchi. In quanto ad oggi ben venga la memoria di Porta e della sua presenza “creativa”, quando l’establishement fa i funerali di stato alla Merini!! Siamo scesi così in basso che gli anni ’60 appaiono, Porta e no…. miracolosi.
    In quanto a Spatola sul n.46 di “Testuale” in lavorazione troverai un saggio ‘complessivo’ assai interessante.
    Intanto auguri per l’anno nuovo. Con affetto
    Gio Ferri

  3. Caro Gio,
    resto in attesa dell’intervento su Adriano Spatola.Condivido la rettifica alla mia analisi;anche se sostanzialmente diciamo le stesse cose. Mala tempora currunt per la cultura e per i cervelli, più semplicemente.Con la classe politica che ci ritroviamo non meravigliano i funerali di stato alla Lucio Battisti della lirica italiana. Basti ricordare che Gasparri, scrematura d’intelletto, interpellato sul senatore Mario Luzi circa un intervento di questi contro il governo di allora, che è poi quello di adesso, candidamente ma con astio dichiarava di conoscere Luzi…e via discorrendo. Buon Anno anche a te, coraggioso filantropo della vera cultura. Con affetto Antonio

  4. Pardon l’errore di battitura. …(Gasparri)dichiarava di non conoscere Luzi…e via discorrendo.

  5. DodoGotaamece ha detto:

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