In memoria di Beno
Beno Fignon ci ha lasciati il 6 settembre scorso e faccio fatica ancora crederlo. La sua scomparsa è stata uno shock, anche per chi era a conoscenza del suo calvario di questi ultimi anni. Da miscredente, non ci credo, perché lo sento ancora presente. E lo dico prima di tutto a lui, così intensamente e autenticamente credente, col quale era però possibile un colloquio, un confronto, perché non era rinserrato nei dogmi come in un fortino arrogante e cretino: il suo forte era al tempo stesso incrollabile e pieno di feritoie e dubbi umani, coltivati insieme alle certezze con amore e intelligenza.
Beno ha fatto delle opposizioni insanabili della vita alimento del suo ricco caleidoscopio di interessi socioculturali ed espressivi: dall’impegno nel sindacato alla scrittura, dalla fotografia alla fisarmonica. E ha fatto di ogni cosa un flusso variegato di acqua necessaria per legare le varie parti di sé, spingendo ogni forma a essere azione vitale in un circuito ininterrotto dall’uno al molteplice e ritorno. Il che ha sollecitato la stessa scrittura a svolgersi con risultati di rilievo in forme diverse: poesia, prosa e fasci lampeggianti di aforismi. E in ognuna ha cercato una linea difficile, scevra di acidi pessimistici, in un sorriso posto tra cielo e terra, che mira a corrodere la presunzione e la stupidità umane.
Il sorriso stampato sul suo volto era sintesi di queste polarità, molteplicità, forme ed esperienze, che si traducevano nella scrittura in ossimori, calembour, e ogni altro gioco verbale o retorico, finalizzato però non al compiacimento di sé ma al piacere di dare forme al circuito infinito della complessità della vita.
La sua scrittura e il suo sorriso erano, sono, un bell’incrocio di dolcezza e asprezza, inscindibili come nel volto scavato di un montanaro, come in una stella alpina che sbuca da uno spuntone di roccia, come nella sua terra d’origine, la Valcellina del Friuli, dove aveva voluto portare due anni fa un gruppo di amici in pullman: due giorni rimasti nella memoria tra sassi bianchi, forre selvagge e acqua che continua; un viaggio concluso poi tra le devastazioni, le ferite e i silenzi colpevoli inferti dal potere alla vicina Valle del Vajont. Siamo andati in Friuli perché lui aveva portato il Friuli a Milano.
Cristiano come pochi che ho conosciuto, era cattolico che protestava senza remore su molti aspetti e comportamenti dell’attuale gerarchia. Per cui, mi dicevo, se fosse stato nella chiesa anglicana la sua bontà avrebbe potuto vestire al meglio i panni di un pastore, che cammina accanto agli altri cercando di farsi presenza più col fare che con prediche paterne o paternalistiche.
Se dovessi estrapolare la sua caratteristica più preziosa – rispetto al panorama umano odierno – direi l’autenticità: le maschere non rientravano nel suo forte. Preferiva esplodere in scatti umorali, piuttosto che piegarsi ai toni misurati da piccole convenienze. Le aperture e le elasticità, donate a ciò che di grande e bello sanno produrre gli esseri umani, si rovesciavano in distacchi indignati dalle incapacità, chiusure e meschinità umane.
Avevamo in comune la stessa età (nato nel 1940) e diversi altri percorsi e passioni socioculturali. Aveva aderito, anche per questo, a Milanocosa 6 anni fa, partecipando attivamente a parecchi progetti e iniziative, trovando corrispondenze con l’intento di mettere in relazione linguaggi diversi.
Durante le estati mi inviava sempre lettere e copie degli articoli che scriveva su giornali locali in Friuli, e mi ha purtroppo lasciato il cruccio di non essere riuscito a rispondere alla sua ultima lettera, scritta con grafia faticata e giunta tre giorni prima della sua scomparsa.
Mi scriveva in questa lettera, dopo il racconto delle sue ultime iniziative e qualche cenno ai tormenti crescenti:
“Caro Adam, 6 pazzi della mia valle – che come comunicazione tra loro e come iniziativa autonoma sono un’autentica frana – non si capisce perché si siano candidati a fare gli amministratori locali. Le nostre dolomiti friulane e quelle venete, sono state riconosciute PATRIMONIO DELL’UMANITÀ. Avresti dovuto vedere che pena la cerimonia della festa relativa. Come vedi, la comunicazione che regge tutto, manca ovunque. Continuiamo così. Facciamoci del male.”
Caro Beno, ti avrei risposto che tristi analoghi rilievi li ho dovuti fare anche in Molise o nel mio paese d’origine e “ovunque”, come dici. Ma il mal comune qui non consola. Pone invece un problema culturale e politico cui non riusciamo a dare risposte adeguate. Gli ultimi due decenni sono stati una frana, è vero. Tanti esponenti della cultura fanno finta di niente, o si occupano del proprio orticello. Farsi gli affari propri è diventato il modello vincente, il costume e l’etica della maggioranza, una maggioranza che è trasversale, di destra e di sinistra.
La casta politica ci appare un esercito di termiti che tende a replicare se stesso, arruolando ignoranti e furbi. Per cui il modello oggi al vertice del governo non è che il frutto corrispondente all’aria che tira e a tale stato di cose. Per coloro che lo incarnano, immaginare altro dall’esistente è un’idiozia incomprensibile. E chi lo fa è un pazzo da isolare, disprezzare e delegittimare. È quella che Giancarlo Majorino chiama dittatura dell’ignoranza.
Una dittatura alla quale, anche là dove non è forte la criminalità organizzata, bastano le tele di ragno del familismo italico e i beoti individualismi circolanti.
Il fatto è, caro Beno, che con tali esponenti politici (a livello locale e nazionale) non c’è comunicazione possibile, sarebbero solo da espellere dalle loro funzioni. Ma lo dovrebbe fare la parte sana della società, che per fortuna c’è e si manifesta in vari ambiti e modi, a volte con caratteri di eroismo civile.
È l’unica speranza, anche se al momento è difficile da coltivare, per le spinte disgreganti e l’inconsistenza di poli referenti alternativi, che riducono le capacità di farsi massa critica e corpo unitario.
E qui le responsabilità sono ampie, della politica e della cultura nel loro insieme, cui nessuno di noi può sfuggire. Né sono attenuanti i mutamenti che il capitalismo ha messo in atto: l’era televisiva che svuota le piazze, e fa di quei possibili crogioli di pensiero critico e comunità, spazi di deliranti e frustrati; o tanti centri produttivi smembrati e spostati all’estero. Cambiamenti che sembrano “allargare gli orizzonti, ma rimpiccioliscono il cielo”, hai scritto in uno dei tuoi cortocircuiti aforistici dilampanti tra i mille sensi del nostro stare qui.
La politica e la cultura devono, dovrebbero, fare questo: misurarsi con i mutamenti. Accettandone i costi e “senza paura di sporcarsi le mani”, come diceva – in verità con poco seguito – Antonio Porta. Altrimenti la cultura diventa un misero gingillo.
Vedi, caro Beno, i nostri colloqui tendevano e tendono a essere megalomani, a guardare l’universo interiore ed esteriore perché, se c’è una speranza, passa da qui.
Grazie di avermelo sempre sollecitato!
Ciao
Adam
Settembre 2009
Adam Vaccaro
Beno Fignon era nato a Montereale Valcellina nel 1940 e vissuto a Milano dal 1957. Ha pubblicato parecchi libri di poesia, dai primi in friulano e in italiano (Isla de Pasqua, Dialet, Li’ castelanis, Erosmetro) agli ultimi della maturità: Sine glossa (1993) e Il sole insiste (2005).
Alla sua Valcellina (Friuli) ha dedicato sia scritti in prosa che non poche memorabili foto. Di rilievo sono scritti saggistici o di recupero della memoria collettiva dei lavoratori: Mille e un respiro (2003) e Lei domani sciopera, dedicati agli anni di lavoro e di impegno sindacale alla Dalmine. Nell’arco dei suoi interessi, non ultimo, quello della fisarmonica, per lui “la fisa”, compagna costante del suo cammino.
Ulteriori notizie e alcuni suoi testi su www.milanocosa.it/autori/beno-fignon
Ho conosciuto e frequentato Beno per tutti gli anni Ottanta. Molto prima di tutti voi di Milanocosa. Poi le nostre frequentazioni hanno preso per-corsi diversi. Soprattutto io ho iniziato a non fare più percorsi nell’am-biente, stanco del pessimo livello incontrato dagli anni Novanta in poi, e soprattutto stanco della conseguente perdita di tempo, seppure a mio unico giudizio. Sicchè quando negli anni a seguire reicontravo quasi tutti gli amici di una volta, li ritrovavo conoscenti. Confermo comunque di Beno l’apertura, il dialogo (tutto quello che ha già ben spiegato Adam nel suo ricordo). Mi associo nel rimpianto per la perdita di un amico, della cui fine ho appreso da una mail di Milanocosa.
Adam, dopo l’invio del mio commento ho letto nel sito quanto riporto:
“Vivere la solitudine è, anziché potenziare la propria autonomia, venirne sgretolati. Questo succede quando si vive del solo posto delle fragole”. (Beno Fignon)
Ti prego di aggiungere quanto segue al mio commento, che è la differenza tra me e Beno sulla quale noi dialogavamo: “Questo non succede, e non se ne è sgretolati, quando si vive nel posto della non-speranza/quiete”.