Laura Canevali, Rose sparse sul sentiero, Boopen, 2009
“In quell’inverno tutto fu chiaro/ non esisteva nulla: tutto era un fuoco sacro/ che si alimentava dei nostri respiri stupiti./ Un freddo pungente inondava/ la vallata facendo di noi/ ceri accesi in un santuario aperto”. Il libro di Laura Canevali si apre con Inverno; la stanza che ho citato, è una sineddoche, che raccoglie nei pochi versi citati, il significato della lirica e insieme, di tutta l’opera: Rose sparse sul sentiero. Il messaggio che il testo suggerisce, si evince dal sostantivo che la poetessa ha chiuso tra le parentesi a fianco del titolo: Misticismo. Come un avvertimento sotteso, i suoi canti vogliono liberarsi da ogni condizionamento fideistico; il suo credo non esclude nessuno, ma il richiamo mistico è vocato totalmente all’arte.
Senza dubbio il carattere malinconico dell’artista facilita questo rapporto altrimenti difficile; un rapporto esclusivo, che per la sua straordinaria eccentricità lo si può scorgere già nei titoli di molte delle quarantacinque poesie che compongono il testo. Nulla poi all’interno di questo percorso si esprime attraverso una sintassi solo descrittiva. Certo, i richiami icastici fanno da sfondo, tuttavia la figurazione si inserisce dentro un clima pervaso da un aroma sottile che la investe con discrezione e accompagna il lettore con gradualità entro un percorso immaginario. Ma l’autore dimentica presto l’immagine, delinea solo la sinopia senza volto né figurazione, per significare una presenza eterea, libera da veli. “Mi trovo in un baratro di torri isolate/ è greve il sonno che ci accompagna fino al tramonto”.
Così si guarisce nell’idea; permane l’impronta che il poeta conduce, anche quando lo sfondo non è più lo stesso. Compare il lago, il suo lago così mimetico e denso. Viene rievocato sotto il cielo della lontananza, esercitato con l’occhio a guardare oltre un orizzonte velato.
Laura Canevali si pone in una posizione di attesa su cosa vive al di là di questo spazio miope, aiutato solo dalla qualità del suono, che inserisce un valore aggiunto alla immaginazione. Compaiono le anime, i cui aggettivi ricavano dall’elemento equoreo la fragilità e la delicatezza. L’innocenza è l’attimo mistico, che rischia di essere vanificato proprio dall’assenza della circolarità di tempo, che quando è reale, pianifica e non arriva mai a toccare il grido della vita. La poesia ci insegna a sanare il limite senza vederlo.
Immaginare l’oltre è possibile senza recuperare il dettaglio; la figurazione si svela nell’immaginato, al di là del visibile. Questa è l’arte; l’invincibile strategia abbagliante a cui l’uomo anela per raggiungere la purezza. Rimane il ricordo, che attraverso la nostalgia recupera questo distacco, diventa poesia e la consola. “Piano il vento accarezza il volto/ e lento il soffio offusca il grido”.
Aky Vetere (da “La Mosca di Milano”, Maggio 2009)