Poesia e Musica

Pubblicato il 5 settembre 2009 su Saggi Musica da Adam Vaccaro

Poesia e Musica

Interrelazioni ed esperienze tra poesia e musica

Giuliano Zosi

Tra i vari approcci della musica alla sua grande compagna storica di cammino, la poesia, ve n’è uno che appare certamente il più semplice, e se vogliamo, il più libero, in quanto non richiede, da parte di un artista o l’altro delle due distinte discipline, che una complice visione intellettuale e un entusiastico vibrare insieme di due anime artistiche. Per questo particolare incontro, non è prevista la recitazione o esecuzione cantata dei versi all’interno della musica. Il testo poetico in questo particolare caso, servirà solo come pura ispirazione per una nuova opera musicale, che verrà eseguita pubblicamente come opera autonoma.

Anche la poesia può ispirarsi ad una musica già scritta ma è cosa più rara. La storia ci fornisce invece straordinari esempi di opere dove la musica si ispiri a dei versi per rappresentare un’opera sinfonica autonoma, e in questo mio scritto ne tratterò solo tre di fondamentale importanza storica.

Uno dei casi più interessanti del Settecento, lo rinveniamo nei primi quattro concerti di Vivaldi, dall’Estro Armonico, dedicati alle stagioni. La musica descrive, passo passo, quadretti dalle stagioni dell’anno, dettati in un testo, scritto dallo stesso compositore, che, di solito occultato al pubblico, è conoscibile solo da coloro che ne sfogliano la partitura. Tutti conoscono la musica delle ‘Quattro stagioni’ (1708) di Vivaldi, nessuno ne conosce il testo poetico, al quale la musica si è così mirabilmente ispirata. Il compositore veneto, in questo caso, si è formato originarie immagini mentali riferibili a ciascuna stagione dell’anno. Le annota poeticamente in un testo che vien posto dall’autore sulla partitura ad ogni cambio di sezione. Le immagini mentali che scaturiscono dal testo, sorta di icone riferibili ad eventi reali e mitici della vita di campagna, vengono tradotti, in musica, in descrizioni temporali di quell’evento. Ora ciò che vivremo, attraverso i suoni, trasformerà quelle primeve immagini, il canto degli augelletti, il mormorio delle fronde, il sonno del capraro, la danza dei pastori e delle ninfe in Primavera; reazioni del pastorello all’avvicinarsi della bufera, il ronzio dei mosconi, il timore dei lampi e dei tuoni fieri, nell’Estate; la danza del villanel per il felice raccolto, il sonno pieno del liquor di Bacco, l’uscita dei cacciatori, la caccia e la morte della preda, in Autunno; soverchio battere dei denti, e dei piedi tra nevi algenti, ritirarsi vicino al fuoco, e camminar sopra il ghiaccio, e a passo lento e di cader girsene intenti per dar corpo, nell’Inverno, in un susseguirsi di eventi: la tempesta, la passeggiata, la danza, il sonno, che mimano emozioni di gioia, di freddo, calore, soddisfazione, ecc, sono codici di emozioni attraverso scene naturali. In tal modo, la tempesta mima la paura, la danza del villano la gioia, e così via. E Vivaldi, grazie alla presenza del testo, sembra qui svincolarsi dal formalismo tradizionale, per cercare una nuova volatilità e originalità espressiva, una singolare libertà, raggiunte proprio tramite un descrittivismo bizzarro e allo stesso modo semplice: la ricostruzione di atmosfere naturalistiche e spesso corredate da una notevole ironia.

Ora quando da dei versi si origina una nuova musica, potremmo parlare di traduzione di un linguaggio in un altro? Traduzione, cioè, come concepita da molti traduttori moderni, quale interpretazione che pur dando per scontato il tradimento relativo, si fa fonte di ampliamento dei sensi del testo base. Per la musica e la poesia, questo concetto di traduzione costituisce un ulteriore allargamento dei problemi di traduzione da un linguaggio all’altro. Vivaldi, ad esempio, parte da immagini naturalistiche da decodificarsi in forme musicali, che interpretano lo spirito di scene quali la danza, attraverso il vibrato minaccioso degli archi o l’assolo un po’ melanconico di un violino. Alban Berg fece qualcosa di simile, su basi però più concettuali, nel suo Wozzeck. In questo modo quelle immagini descritte dal testo divengono delle emozioni, precise emozioni; giacché il compito fondamentale della musica non è tanto di descrivere immagini, bensì di cogliere emozioni dalle immagini. È per questa ragione che noi possiamo, dunque, percepire musicalmente il senso della leggerezza, della morbidezza, della pesantezza, che sono sensazioni attribuibili originariamente al tatto; e il senso della luminosità e dell’oscurità, che sono sensazioni provenienti dalla vista.

La mente traduce dunque impulsi del tatto o della vista in concetti mentali, per farceli vivere, decodificati nei linguaggi della pittura, della musica, della poesia. Nel caso di Vivaldi, poi, questa traduzione fa accadere un fatto straordinario. È sottinteso che noi non potremmo mai immaginare il testo soltanto dall’ascolto della musica, ma possiamo immaginarne la scena descritta senza aver letto il testo. Il musicista ci fa entrare nelle immagini del testo poetico attraverso la sua disciplina, suscitando e traducendo quelle descritte dal testo nel suo linguaggio e nei suoi codici: le percezioni trasmesse da un paesaggio nevoso invernale, la danza campestre di sapore arcaico in Primavera, i fulmini e la furia di una tempesta d’Estate, la gioiosa canzone di un villano, evocando il battere dei denti per il freddo col ribattere ritmico di una nota ecc. .

Qualcosa di completamente diverso appare la ottocentesca Verklarte Nacht (Notte trasfigurata) capolavoro post-romantico, datato 1899, di uno Schoenberg giovanissimo, scritto per soli archi, come Le Stagioni di Vivaldi, e ispirato da una lirica dello scrittore ‘fin de siècle’, Richard Dehmel. In sintesi, il testo ci racconta di una donna pronta a rivelare i propri trascorsi sentimentali al suo amante: di aver sposato un uomo senza amarlo, di essere in attesa di un figlio di lui, di voler essere compresa nel timore di essere respinta dal nuovo amante. La confessione avviene nella inquietante atmosfera di una notte di luna. Ma egli la rassicura del suo amore, che trasfigurerà il figlio dell’altro come fosse una creatura di loro due. Verklarte Nacht è davvero una ridda di passioni travolgenti, come il testo di Dehmel richiede: calda passionalità intrisa di misteriosa angoscia e sensuale aggressività che prelude al futuro Schoenberg espressionista. Il compositore aveva tratto il testo dal volume di liriche, Weib und Welt, del 1896, dove sono presenti tutti gli elementi della poesia di Dehmel, dal razionalismo alla concretezza reale.

Nonostante il tessuto sonoro formato di soli archi sia estremamente passionale e lirico, la sua prima esecuzione a Vienna nel 1903, generò, come ricorda lo stesso Schoenberg, ‘tumulti e pugilato’, forse per un pubblico non ancora abituato a virtuosismi strumentali così carichi di tensione, e per critici assai più propensi ad andare a cercare l’influsso di Wagner, piuttosto che di Brahms, in un compositore alle prime armi, invece di constatare quella esplodente creatività. L’incontro di Schoenberg con Dehmel, non fu casuale. Intorno al 1900 il poeta era considerato il massimo esponente tedesco nel campo della poesia. Schoenberg frequentava l’ambiente intellettuale di Vienna: era quindi a pieno contatto con le forze vive della cultura dell’epoca. E Dehmel era ambitissimo.

All’interno dei suoi versi si possono intravedere, come egli stesso dichiara, spiritualità, sensualità, metafisica e senso estatico, anche se egli si definiva cocciutamente ‘razionalista’, realista non meno che idealista, non meno empirista che metafisico, non meno naturalista che simbolista, il che non aiutava a comprendere molto la sua personalità, anche se fu capace, al di là delle sue concezioni, di influenzare potentemente Schoenberg, probabilmente per le tinte sensibili, fosche e magiche, adempienti più al formulario espressionista che a quello romantico. Non vi sono qui descritte azioni di rilievo, ma puri sentimenti umani in lotta. La musica si riferisce al testo poetico per sommi capi, tanto da potersi definire, secondo Schoenberg, anche come musica pura, pur essendo riconoscibile la forma del poema sinfonico. Gli stacchi dei differenti tempi musicali servono a sottolineare l’ingresso delle varie sezioni del testo poetico, sino alla trasfigurazione finale che illustra musicalmente le rasserenanti parole dell’uomo.

Nel calmo riflessivo episodio iniziale

“Vanno per un boschetto spoglio le due creature,

la luna le segue: esse vi affondano lo sguardo…….”

la musica sembra richiamarci ad uno stato di profonda comprensione umana e attesa piena di soggezione, nella atmosfera notturna del bosco dove tutto sembra potersi dire. Poi, progressivamente si scatenano le passioni, in un dialogare sempre più serrato. La musica esprime qui soprattutto ansia di comprensione, là dove vere e proprie folate di archi descrivono il rimorso della donna che si autoaccusa. Ma subito sopravviene la dolcezza di un canto sofferto, detto quasi sottovoce.

“………

parla una voce femminile:

“io porto un figlio che non ti appartiene,

accanto a te peccatrice cammino.

Contro me stessa ho gravemente peccato.

Non più credevo alla felicità:

pure con greve anelito bramavo

uno scopo, una meta nella vita:

ed ecco

sfrontata mi son fatta e ho lasciato

che un estraneo il mio tiepido sesso

in un amplesso avvolgesse,

e me ne son creduta benedetta.

Il testo non perde mai di vista l’ambiente opaco e magico della notte, rischiarata dal disco lunare:

“……

Ella cammina a passi vacillanti

In alto guarda; la luna la segue.

Lo sguardo buio annega nella luce”

E poi finalmente si ha una risposta:

“……

Il figlio che hai concepito

non sia di peso all’anima tua:

guarda come è chiaro e lucente l’universo!

Ovunque tutto è splendore”.

L’orchestra fluisce, densa, alla ricerca di suoni cosmici, di ritmi serrati, ma alla fine è l’uomo con la forza della sua pietà e della sua comprensione che esalta quella passeggiata.

“……….

tu meco avanzi sopra un mare freddo

ma un singolare calore sfavilla

da me entro te, da te enro me.

Il bimbo estraneo ne sarà trasfigurato

e tu a me da me lo partorirai;

sei tu che hai dato a me questo fulgore,

e me stesso in un bimbo hai trasformato.

Dalle ansie precedenti la musica si libera in un gioco fortemente espressivo, fatto anche di voli luminosi per dar posto all’estasi di un canto di singolare dolcezza dove imperano purezza, tra candore infantile e maturità senile.

“………….

Egli l’avvince intorno ai fianchi forti.

I respiri si congiungono nell’aere lucente.

Nell’alta notte chiara due creature vanno.

Vi è qui, musicalmente, tutto un palpitare di linee che si intrecciano e che si inseguono, di respiri che si accavallano. Di frasi commosse che si distendono. Schoenberg, in occasione della prima esecuzione del Verklarte Nacht fu tacciato di wagnerismo, e a prescindere dalla sua giovane età, che farebbe perdonare aver percepito quella influenza (e chi allora non l’aveva percepita?), il giudizio critico su di lui in quell’epoca fu comunque superficiale. La musica di Verklarte Nacht sembra vivere in bilico tra il fraseggio wagneriano e l’intima espressività brahmsiana, in modo che nessun dei due musicisti è ravvisabile in modo vistoso. Per in più si rileva chiaramente un intimismo e una lontananza dall’ ‘eroico’ che ha poco a che vedere con Wagner, una libertà formale e una attenzione al riconoscimento oggettivo di sentimenti, sensazioni, emozioni, che non sono di Brahms. Vi è qui, tra l’altro, una libertà melodica, una dilatazione delle emozioni, anche le più vicine all’angoscia, alla trepidazione, alla meditazione, all’aggressione, alle tinte fosche oltre che gioiose, a preludiare il colore espressionista, raggiungimento timbrico dello Schoenberg maturo.

Facile, sui lunghi tempi, una comparazione tra il testo e la musica, là dove in quest’ultima emergono il senso di tensione intima già presente nella musica sin nelle prime battute, il dialogo serrato formato dal vorticare di linee di violini negli episodi successivi: dialoghi che non hanno un loro corrispettivo nel testo poetico, ma che esprimono le angosce interiori della donna durante la confessione, il suo senso di devozione verso l’uomo amato e la richiesta di amore e di perdono, che danno vita alle più belle e appassionate espressioni liriche del primo Schoenberg. Dunque si parla qui non di fatti, di azioni, ma di sentimenti che si rivelano al massimo grado, senza alcun impedimento. Una musica di puri sentimenti, che nel raccontarsi, si perde nei meandri di una interiorità passionale, lirica e profonda, minimizando la rappresentazione esteriore: una musica formata di passioni e non di azioni dunque. Il fatto è che i sentimenti espressi dalla musica sono così forti e si rivelano in tempi così dilatati, che non accettano nessun tramite, per rivelarsi, se non il proprio impeto: rappresentazione di passioni, non di personaggi. Il compositore si è servito del testo per fare una rappresentazione sacra del proprio inconscio, realizzando così un opera che va in scena per rappresentare sia emozioni violente che dolci e soavi, ma irresistibilmente penetranti. Questa composizione, di tutto rispetto, di un Arnold Schoenberg giovanissimo, è già un passo in avanti rispetto alla concezione vivaldiana, poiché supera il puro descrittivismo, entrando senza paura e innanzi tempo nelle misteriose stanze dell’inconscio espressionista.

Era il 1887 e Debussy sentiva profondamente la necessità di scoprire fuori dalla musica la ricchezza di una forma personale di espressione. Tra i musicisti francesi Paul Dukas era l’unico amico capace di parlare d’altro che non di musica. Dopo un lungo periodo in cui i due giovani compositori non si frequentarono, si ritrovano casualmente e iniziano a comunicare vicendevolmente le loro speranze per il futuro. Nello stesso anno Debussy regala all’amico una copia della nuova edizione del poema di Mallarmé, Après-midi d’un faune, con la dedica : “Cordialità, Estetica…. Toute la ljre”. Probabilmente ancora non immaginava che il primo capolavoro della sua storia di compositore, sarebbe nato da quel poema.

Del resto, Debussy, che non era facile simpatizzare con altri artisti, seguiva già da tempo, ma a debita distanza, Mallarmé, illuminante poeta simbolista, spiandolo a sua insaputa durante i concerti domenicali, quando il poeta di tanto in tanto estraeva dalla sua giacca un libricino e vi scriveva qualcosa. Era così curioso il giovane Debussy, da essere tentato di rubargli quel libricino. Gli aveva fatto poi conoscere i suoi Cinq Poèmes de Baudelaire, e il poeta ne era rimasto talmente impressionato da chiedere la collaborazione del compositore per una rappresentazione del suo poema, Après midi d’un faune. Un incontro, questo, con Mallarmé che si colloca nel 1890, cui seguirono poi altri nella stessa casa del poeta, sempre aperta il martedì e assiduamente frequentata dai poeti, Charles Morice, Henri de Regnier, Vièlè Griffin, Georges Rodenbach, Marcel Schwob e anche dal pittore Gaugin. Una rappresentazione del poema di Mallarmé era stata fissata per il 1891, partitura musicale del signor de Bussy, era scritto sul probabile programma di sala.

Ebbene! Ancor oggi si fa fatica a conoscere le ragioni per cui la rappresentazione non ebbe luogo. Forse Debussy non era ancora contento della sua musica e ritirò la partitura, la compagnia del balletto scritturata aveva dei problemi, il testo di Mallarmé non trovava degno posto nello spettacolo. Fatto sta che il poeta preferì tacere le ragioni. Intanto Debussy lavorava alacremente avendo già da tempo in cantiere il Quartetto per archi e ‘Prelude, Interlude et Paraphrase finale sur l’Après-midi d’un faune’. Per addentrarci ancora maggiormente nei rapporti tra Mallarmé e Debussy, dobbiamo includere nella nostra trattazione il racconto fatto da Raymond Bonheur che ebbe occasione di ascoltare qualcosa di particolare dal compositore al pianoforte nella sua casa di Parigi, alla fine di una radiosa giornata estiva: parlava, Bonheur, di una forma originaria , una sensazione abbagliante, qualcosa di assolutamente diverso: era il Prèlude. Debussy più tardi volle ricordare la reazione di Mallarmé all’ascolto di quel brano:

“A quel tempo abitavo in un piccolo appartamento ammobiliato in rue de Londres. La carta che rivestiva i muri raffigurava, per una bizzarra fantasia, la faccia di Carnot circondata da uccellini! Si riesce ad immaginare che cosa può provocare la contemplazione di un simile oggetto? Fra l’altro, il bisogno di non stare mai a casa. Mallarmé venne a casa mia, con la sua aria fatidica e addobbato con un plaid scozzese. Dopo l’ascolto, restò a lungo silenzioso, poi disse: “Non mi aspettavo una cosa del genere! Questa musica prolunga l’emozione del mio poema e ne definisce la scena più appassionatamente del colore”.

Il 22 Dicembre 1894 ci fu finalmente la prima del Prèlude à l’après-midi d’un faune alla Società Nationale a Parigi. Fu un successo di pubblico, il pezzo eseguito due volte, Mallarmé estremamente commosso. Come per il Verklarte Nacht, di fronte ad una prima esecuzione la critica non fu benevola. Oggi il Prèlude è considerato un capolavoro indiscusso. Lo stesso Ravel lo definì un’opera perfetta. Il fatto è che il Prélude fu una composizione sinfonica assolutamente innovativa rispetto a ciò che fino allora era stato esperimentato da orecchio umano, eseguito da un orchestra. La leggerezza e la luminosità dei timbri orchestrali, l’attenzione alla morbidezza timbrica, la scelta degli strumenti, il lirismo sensuale e caldo delle armonie che accompagnavano le volute dolci e spaziose della melodia del flauto, non avevano precedenti in nessun altro pezzo scritto sino ad allora, e forse mai più eguagliate nell’intera produzione orchestrale di Debussy.

Tutta l’orchestra era tesa a rappresentare la luce cromatica del mutare dei colori e delle ombre del giorno, con tanta raffinatezza e sensibilità che ancor oggi non mancano di colpire l’ascoltatore: un vero poema sinfonico formato di una luce calda e sincera. Il rapporto con il testo: una sorta di arcaico sentire tra risonanze di presenze sottili, magiche fluorescenze di stormire di fronde nella luce pomeridiana. Qualcosa che si avvicina alla magia dei grandi paesaggi di Bonnard, dove, se ci fossero presenti personaggi mitologici o umani, non si differenzierebbero, entro i contorni antichi ed estesi di verdi piante millenarie. Ma il tutto è arricchito da un sentire, a pelle e con trasporto, quelle gioie della vita sensuale come le vivrebbe un’umana creatura che mantenga la coscienza di essere un mito, cosicché non v’è differenza tra il mutarsi di una luce calda che raggiunge il naturale imbrunire della sera e le modificazioni interiori vissute dal giovane fauno, in modo che diviene fortemente percepibile, nei suoni di Debussy, il passaggio dal passionale esplodere delle prime ore del pomeriggio alla lirica malinconia della sera sopraggiunta.

Mallarmé aveva scritto dei versi indirizzati a Debussy subito dopo l’esecuzione:

“Sylvain d’haleine première

Si ta flute a réussi

Ouìs toute la lumière

Qu’y sufflera Debussy”.

La commozione era tanta, sia dopo il primo ascolto nella casa di Debussy, sia dopo la prima esecuzione. Si comprende che egli aveva percepito che la musica del Prelude aveva superato i confini del suo testo, oltre le sue stesse intenzioni. La musica proiettava luce dai versi, cogliendone la vastità cromatica e spaziale insita. S’era dovuto ricredere, forse, davanti al capolavoro, Mallarmé, che nel suo trattatello La musique et le lettre, aveva dichiarato che la musica sarebbe un incanto vano, se il linguaggio, la forza e lo slancio purificante del canto non gli conferissero senso. E ancora, “ La Musica senza il testo si presenta come assai sottile nuvola”. Eppure davanti a lui era emersa, quel fatidico 22 Dicembre, un opera musicale completa e assolutamente autonoma.

Debussy aveva dunque scritto qualcosa, che, partendo da un testo poetico, ispiratore originario, si rivelava assolutamente autonomo da esso. Non è difficile capirne i motivi. Le musiche che di solito vengono scritte per il teatro non sono autonome (e c’è ragione di pensare che Debussy avesse scritto quel poema in ragione di uno spettacolo teatrale dove la musica doveva avvicendarsi alla lettura del testo di Mallarmé); cioè, questo genere di musiche, tranne casi rarissimi non può essere eseguito in un concerto, perché la sua qualità è assai scarsa. È, cioè, musica funzionale e tale rimane. Ma nel caso del Prelude, la sua qualità musicale è tale che potremmo dimenticare quale ne sia il testo ispiratore e, addirittura, quale ne sia l’argomento. Questo fatto non nega assolutamente il valore del testo e l’influenza che esso può determinare su un artista. Infatti, quel poeta e non un altro, quella poesia e non un altra, fu capace di influenzare il compositore.

Debussy, che fino alla prima del Prelude, non era ancora molto conosciuto, amava Mallarmé, amava frequentare i suoi martedì letterari anche standosene rincantucciato e silenzioso in ascolto, e stimava, insieme agli altri, la sua continua ricerca, disperata e sempre più difficile, di superamento dei consueti legami tra le parole, tendendo a delicati e misteriosi allacciamenti. Questa amicizia devota l’uno per l’altro, ma in un certo senso, timida, riservata, è stata fondamentale per la crescita dell’artista Debussy. L’essere presente al rinnovarsi del pensiero nel salotto più famoso di Parigi, il poter ascoltare, con le proprie orecchie, il prolungarsi dei dibattiti, il procedere delle letture nell’abitazione di Mallarmé e di una poesia tanto rivoluzionaria come quella simbolista, permisero al compositore di ramificare i propri suoni nel vento di una visione nuova della cultura, e soprattutto di far penetrare quegli stessi suoni in uno spazio più profondo e poetico di quello puramente estetizzante e coloristico, di moda a quell’epoca.

Le sue armonie, il suo melos, si erano arricchiti di senso, perché, per i simbolisti, il gioco della comunicazione, si faceva difficile se non arduo, alla ricerca di immagini e concatenazioni ardite, di sospiri ed effervescenze della natura, di impercettibili impulsi interiori, di decifrazione di altri sensi, di coloriture misteriose. Questo mondo intellettuale straordinario aveva arricchito l’esperienza linguistica del compositore: informazione atta a sviluppare dialettica, profondità alla sua comunicazione. L’assoluta fedeltà dei simbolisti alla loro ragione di vita, l’arte, all’imprescindibilità del loro essere tutt’uno con essa, con il loro pensiero rivoluzionario, li rendeva puri e fieri del loro insuccesso, del loro essere sconosciuti, tanto da essere chiamati Poeti Maledetti.

All’interno di questo movimento di pensiero, Mallarmé fu il maestro spirituale incontestato del gruppo di poeti e artisti che lo frequentarono, influenzando profondamente chiunque lo avvicinasse: essergli vicino significava scrivere e riscrivere cinquanta volte un proprio verso nell’attesa che quella segreta impressione raggiungesse il suo debito corpo nelle giuste parole. In Debussy c’è questa ricercatezza delle armonie, orientamenti, ora di sapore arcaico, ora coloristico, il soffermarsi sopra precise sonorità e luminescenze sensuali, come tappeti di colori, andando fuori da ogni schema classico e tradizionale. Il passare da sonorità dissonanti a sonorità antiche significava proiettare dialettica e spazio storico nel cervello del pubblico, obbligarlo a pensare. Un fauno si accinge a meditare sull’incontro erotico avuto con due ninfe, incerto se sia avvenuto nella realtà o nella sua immaginazione. Tutto era avvenuto in un assolato pomeriggio, sino alla sera quando il fauno ritornerà, assonnato ed ebbro di vino, tra le braccia di Morfeo. Già nel primo verso, vi è una domanda che ha molto a che fare con la musica di Debussy. Si sente qui già tutta la dolcezza piena di squisite sonorità della sua musica, tanto sognante quanto sensuale.

Se ci soffermiamo sul testo dell’Apré-midi d’u faune, che alla prima lettura risulta certamente più ermetico della musica del compositore francese, vi sono spunti, che non possono non aver colpito Debussy nel suo stendere la partitura (diamo qui esempi del testo di Mallarmé tradotto da Patrizia Valduga, e mi scuso se ho frammentato un testo di questa bellezza, ma il mio scopo e di rivelare le sue segrete vicinanze con la musica):

“Un sogno ho amato?

……………………..

Qual diurna brezza al tuo vello accaldata?

……D’afa se lotta, la mattina fresca,

non fiotta aqua che il fallo mio non mesca

al brolo asperso d’accordi; …….

Debussy apre la sua composizione con un assolo di flauto a cui rispondono fieri suoni di corni. senso di calore, luce pomeridiana: non ci sono domande nella musica come nel testo:

“qual diurna brezza al tuo vello accaldata? fiotta acqua con il versare del fallo e il brolo asperso d’accordi

dando corpo ad una musica sensualissima di estrema raffinatezza, all’inseguimento di gioiose appena percettibili sensazioni

……”Che qui tagliavo cave canne domate

dal talento; al glauco oro di lontano

Verde offrente la sua vite a fontane

Si fa luce, qui, quel magico suono del flauto che sa di acqua e di canna, così luminoso da sembrare oro. Debussy scrive qui una delle più belle melodie pensate per il flauto, qualcosa dal quale non si può prescindere pensando a questo strumento: qualcosa che scorre tra la purezza di un emozione sincera e il disinvolto farsi giornaliero della natura, tra calore erotico e malinconia. La dolce melodia prende via via corpo più denso ricordando arcaiche visioni, quasi a divenire un una fiera invocazione:

Fiero del mio brusio, andrò dicendo

Le dee a lungo; e con idolare pitture,

Torrò alla loro ombra altre cinture:

Così dell’uva il chiarore succhiato,

per bandire un rimpianto che ho fintato,

Vuoto alzo in riso al cielo estivo il grappolo

E soffiando nelle lucenti bucce, avido

d’ebbrezza, fino a sera guardo attraverso.

La melodia si fa dunque sempre più corposa e sensuale, sino a divenire un tutt’uno con l’armonizzarsi dei più sottili eventi del bosco

………

Con un grido d’ira al cielo del verde;

E il bagno splendido di chiome si perde,

Oh gemme, dentro a brividi e chiarori!

Attraverso la forza imponente della massa degli archi si entra nell’esplodere della passione, l’inseguimento delle ninfe nel fitto del bosco, nel gioco amoroso che fino alla fine del pomeriggio perdura:

……….Le rapisco non le sciolgo, e m’affretto

nel folto, al rezzo rivolo in dispetto,

di rose d’ogni aroma al sole sperso:

Lì il nostro gioco uguagli il giorno perso.

E potrei andare avanti così sino alla fine del poema, ma non è questo il mio compito. Abbiamo visto come il compositore si appressi al testo e come lo segua per segrete connivenze dove la sensazione si fa grande, e invade lo spazio musicale, oramai libera, per dar corpo nel finale ad una sopraggiunta malinconia. La musica sviluppa quella sensazione proiettandosi in infinite interpretazioni.

L’eterno sciame del desio trascorre.

Allor che il bosco d’oro e ceneri è tinto.

La danza erotica tra il fauno e le ninfe va completando il suo rito e una iniziale sonnolenza pervade il fauno alla fine del pomeriggio. Vi è qui tutto un rilassarsi dei suoni che di magia in magia vanno verso una lirica malinconia che coglie il personaggio al calare del sole.

Oh pena certa…..

No, ma l’anima

Vacante di parole e il corpo rapido

Tardi al firo silenzio del meriggio soccombono:

Presto i oblio di bestemmia dormiamo

Sulla sabbia assetata, e la bocca oh amo

Che all’astro efficace dei vini sia rivolta!

Coppia, addio; vedrò l’ombra in che sei volta.

Verso la fine la melodia si colora di una sottile e insita malinconia che prende il posto della passionalità, come a presagire che non solo le ore della passione sono finite ma che il sogno, forse ha preso il posto della realtà.

Dall’ascolto dell’opera si desume che il compositore si è formato un’idea propria del testo di Mallarmé, cogliendo i punti salienti del ricordo di quelle ore pomeridiane, scaturite dall’auto-racconto del fauno, e penetrando con cura le sottili emozioni di quel racconto. Il compositore arrivato a possedere il metro e l’enfasi di quel poeta, li proietta poi nel tempo attraverso i suoi suoni dando corpo temporale alle immagini. Così la musica stessa diventa poesia.

Il compositore va progressivamente scoprendo nella sua memoria che le figure, le sensazioni ed emozioni, le entità mitologiche, descritte dal poeta, appartengono, anche al suo passato, al suo bagaglio culturale; le riconosce e va ricercando nel linguaggio musicale le figure somiglianti; ad esempio la figura sonora che dipinge l’impressione della arcaicità. Nascono così riferimenti che sono fondamentali nella musica e che sono immediatamente riconoscibili e vivibili perché assumono il corpo di un’emozione. Si aggiungano i significati insiti nei versi, nelle strofe che possono influenzare la musica più nella forma strutturale che nei significati degli insiemi dei suoni; e il testo di Mallarmé ne è ricchissimo. Ma all’ascolto del Prelude la forma di questi significati sembra riassumersi in alcuni momenti di straordinario calore sinfonico.

Se ci soffermassimo solo sulla bellezza estetica delle opere descritte, non verremmo a capo di un percorso spirituale e intellettuale che da Vivaldi a Schoenberg tocca l’informazione, l’evoluzione e la visione artistica del mondo in una società che si trasforma e si emancipa. È la storia del pensiero implicata in questa operazione. Vivaldi si limita a dare corpo musicale a quadri popolari e naturalistici, per una musica che identifica l’emozione con l’immagine della natura; per Debussy, fermo restando il suo amore per la natura come dispensatrice di vivide impressioni (impressionismo), emerge non tanto il mutare degli avvenimenti di una storia, quanto la percezione di momenti sensitivi del fauno tra sogno e realtà. Ecco perché alla lettura del programma di sala della prima esecuzione del Prelude, si afferma che Debussy allude a “una funzione pittorica, se non addirittura scenica della musica, descrivendola come scene in successione, attraverso le quali scorrono le smanie e i sogni del fauno nel calore del pomeriggio”.

In Schonberg il discorso passa dalle sensazioni ai moti dell’anima: quest’ultimi, profondamente legati ai risvolti psicologici delle reazioni dei personaggi, trasmettono innanzitutto il fluire tumultuoso e sensuale della gelosia, maturazione psicologica, comprensione, estasi, reazioni inconsce, lotte e battaglie esistenziali: giochi, sino ad allora segreti della psiche, come reazioni ad una confessione. La psicologia entra nella storia dell’arte e della musica, non per fissare caratteri specifici dei personaggi (Wagner), ma per seguirne introspettivamente l’endogenia della psiche. Viene così logico pensare che nella Vienna di Schoenberg le ricerche nel campo della psicologia avessero una maggiore tendenza a dirigersi sul soggetto-essere umano, con le sue pene, le sue contraddizioni, piuttosto che sull’iconografia simbolista (il fauno, le ninfe, il giardino, ecc.), emergenti nella società parigina di Debussy. Nel caso di Debussy e Schoenberg, vi fu certamente un incontro completo fra il poeta e il musicista.

Tuttavia, l’esperienza insegna che non è necessario che i due artisti delle diverse discipline si conoscano. Urge che il musicista ami il testo del poeta, si commuova davanti ad esso, e di conseguenza ne scopra e ne indaghi i passaggi più reconditi. Altro elemento che può rivelarsi pericoloso è poi quello di fare un’interpretazione troppo personale del testo non suffragata dalla visione intellettuale generale di quel poeta, come l’incapacità di entrare nel suo ritmo metrico o di essere lontano dalla sua concezione del mondo. Non è quindi possibile che qualcuno possa scrivere degni brani musicali scritti su commissione o su testi letti in tutta fretta come succede in alcuni festivals attuali. E ancora più spaventoso quando i compositori adattano composizioni già pronte ai testi poetici. L’opera vale se coglie il mistero insito in quella comunicazione, e interpretandolo non ne falsifichi il pensiero, il sentimento insito. La parola, nella poesia, aumenta la sua complessità: si determina come forma d’arte, perde, cioè, la sua capacità di relazione determinata, in quanto i suoi significati diventano molteplici. “La singola parola, dice L. Schreyer, è un valore complesso, la cui forza artistica si basa sulla polivocità dell’associazione”. Ecco perché è d’obbligo che il compositore penetri in profondità nel mondo del poeta. D’altro canto, non ha alcun senso scegliere un testo poetico se poi non si arrivi in fondo al suo insito contenuto. Infatti la parola può avere vari significati per coloro che la leggono, ma ne ha uno per colui che la scrive. Tuttavia il soggetto (compositore), che conduce l’azione al fine ultimo, deve incontrarsi con un oggetto (il testo) che è un corpo dotato di autonoma personalità, che necessita di un’interpretazione per essere radice della nuova opera. Il soggetto ha scelto un autore piuttosto che un altro, ha scelto un poema piuttosto che un altro, dunque, sarebbe inutile averlo scelto se non vi è un oggettivo riconoscimento della individualità di quell’oggetto.

In alcune rassegne, di incontro tra poesia e musica, è facile scorgere qualcosa che si avvicini all’errata interpretazione di un testo da parte di un musicista: il risultato assomiglia molto a quell’aneddoto di Jonesco, di un gallo che volle provare a fare il cane, ma non ci riuscì perché fu subito riconosciuto. Se il compositore non avrà interpretato giustamente il testo e soprattutto non avrà fatto nessun passo nella direzione della sua comprensione, che, ripeto, non è la propria interpretazione di quel testo, ma la penetrazione dei contenuti reali di quello, cancellerà del tutto la funzione del testo. Se poi la musica è qualitativamente inesisente, tanto peggio, quel poeta e quel musicista si saranno defunzionalizzati a vicenda, rendendo del tutto inutile la loro collaborazione.

Nella città di Milano vi sono parecchie organizzazioni che ambiscono dare corpo all’incontro tra le due arti. Il fatto è di per sé importante perché probabilmente prelude ad una nuova visione del loro avvicinarsi. E comunque rappresenta qualcosa di estremamente coraggioso e attivo, perché non sono molti gli enti culturali che in una città si prefiggono scopi di ricerca. Dato che non sono polemico per natura, mi limiterò a dire che l’unica associazione veramente seria della città di Milano, che sta lavorando nella direzione della ricerca fra le arti è, per ora, l’Associazione Milanocosa, che, da anni, è impegnata su vari fronti, ma specialmente nel ramo della relazione tra la poesia e la musica.

L’Associazione è mossa dal presidente, dai soci del direttivo e dall’assemblea, che vagliano criticamente ogni proposta e realizzazione. Pur senza essere sostenuti da discreti finanziamenti, il desiderio di questo gruppo di artisti di proiettare ricerca linguistica, coerenza d’intenti, è vistosissimo, nonostante la frequente assenza della stampa. Il fatto straordinario di Milanocosa è che all’interno delle sue proposte sono prese in esame tutte le possibilità di incontro tra le arti. Da poco tempo anche la pittura e il cinema sono già in azione, nell’ associazione, per coinvolgimenti e interazioni. Un tentativo davvero coraggioso di creare dialogo serrato, efficienza critica e amicizia tra i rappresentanti delle varie arti. Mentre lo scambio di sollecitazioni tra la poesia e la pittura sta dando un qualche risultato, il rapporto tra la pittura e la musica, nonostante lo storico esempio di Mussorgskij, comporta ancora oggi notevoli problemi, probabilmente determinati dall’apparente lontananza linguistica tra l due arti. Ma questo è un altro discorso.

Milano 7 Giugno 2009

Giuliano Zosi

3 comments

  1. giulia contri ha detto:

    caro Zosi, perchè non organizzi una serie di serate sugli autori di cui tratti in queste pagine e in cui alterni presentazioni commenti ed esecuzioni?

    grazie

    giulia

  2. laura cantelmo ha detto:

    Caro Giuliano, ho letto solo ora questo tuo interessantissimo saggio, di cui ti ringrazio.

    Giulia Contri propone giustamente di estendere queste tue riflessioni e queste conoscenze a un pubblico più vasto in un ciclo di serate. A quando?

    Ancora grazie
    Laura

  3. romano rocchi ha detto:

    Giuliano. BELLO!…ritrovarti, dopo tanto, (o è solo ieri), nell’armeggiar di musica e poesia. Subito ricordo le tue note, anche se ascoltate troppo poco.Mi piaceva inalarle, contenerle, mimusicarle! Chi’sà! Potrebbe risuccedere!! Grazie. Un caro saluto. Romano Rocchi. rorocchi@micso.net …ci risentiamo?

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