Donne e Opere. di Giuliano Zosi

Pubblicato il 12 maggio 2008 su Saggi Musica da Maurizio Baldini

Nel campo dell’opera lirica il protagonismo è l’ambito delle donne. Anche quando l’eroe dell’argomento è l’uomo, il coinvolgimento femminile, è comunque sempre fondamentale allo svolgimento dell’azione. Le protagoniste femminili delle ribalte, se sono generalmente considerate passionali e idealiste, votate alla sofferenza e alla morte, vengono, però, percepite come forze istintive e coraggiose, capaci di tirar dentro il loro destino, spesso senza rendersene conto, parenti, amanti e amici.. Sul finire dell’Ottocento, divengono personaggi chiave della struttura melodrammatica, dotate di volontà e coraggiosa autonomia. Spesso, pur essendo succubi di fatti più grandi di loro, si rivelano poi tutt’altro che prive di personalità e di giuste ribellioni. L’evoluzione delle società europea e slava, grazie specialmente alla letteratura simbolista, al teatro romantico e al teatro verista, va, dunque, progressivamente conquistando nella donna, un certo grado di liberazione e di volontà d’azione: .

Parleremo qui di casi limite. Nella Fanciulla del West, di Giacomo Puccini (1909), vediamo una significativa emancipazione del comportamento psicologico della protagonista, Minnie, personaggio tutto verista, si trasforma da passiva, affascinante locandiera innamorata ad attiva salvatrice, dalla forca, del suo amato, il bandito Ramarrez. Ella metterà tutta la sua forza di volontà, la sua furbizia, il suo fascino, ed altre doti umane, per salvare l’amato dal capestro. Il ruolo del bandito è, al contrario, passivo: non è lui a decidere del suo destino. La riconoscenza che i minatori devono a Minnie per i numerosi piccoli servigi elargiti, il vero amore, un certo fascino e una notevole comunicativa, sono qui le forze che s’impegnano a tramutare un verdetto di colpevolezza del bandito, da parte di una forsennata raccolta di cittadini, in un atto di pietà. V’è qui un’apertura nuova verso i valori della comprensione umana e della interpretazione delle leggi, che non si notano sovente nei personaggi maschili, certamente più rigidi.:Minnie è un coacervo di forze che ha una sapienza nel comunicare, che sa convincere, che crede nei valori della vita e della redenzione umani…

Ma la donna nell’opera, si svilupperà progressivamente:

Più tardi, negli ultimi anni della sua vita, Puccini darà vita ad un altro personaggio feminile dal carattere più idealista, Liù, personaggio indimenticabile della sua ultima opera, Turandot (1926), ancora ammantato di tenera passionalità.. La fanciulla si abbandona ad una morte atroce per amore del principe Omar. L’amato è lontano dai suoi sentimenti, irraggiungibile, totalmente preso dall’infatuazione per la Principessa Turandot.. Liù che morirà per non tradire il Principe, non rivelerà il nome esoterico di lui agli aguzziini della Principessa: quel nome che apparirà all’immaginazione popolare come simbolo della vittoria del principe sul gelo crudele della principessa (Omar-Amore). . Grande fiaba! Se si pensa che Liù non è altro che l’alter ego di Turandot.

Più coerente e vagamente simile ad un odierna Medea: scarica sul proprio sacrificio tutta la responsabilità, è la notissima, pucciniana, Betterfly (1904), personaggio di straordinaria femminilità e di sconcertante coerenza. Non accetta la sconfitta, la fanciulla giapponese: non rimarrà inerte all’ abbandono del marito: sceglierà di suicidarsi facendo karakiri, lasciando al marito il frutto del proprio amore, il piccolo figlio, per non tradire il suo orgoglio di donna, non venendo meno alla sua intransigente fedeltà. Si negherà alla vita. Si sottrarrà in questo modo all’inganno dell’uomo, Pinkerton . In ogni caso sia per Liù che per Betterfly, si tratta di donne, che pur combattendo fino all’aultimo per i loro diritti, soccombono, accettano supinamente le contrarietà; non tentando di reagire alle avversità, impugnando il loro diritto di vivere. Non sono personaggi moderni come Minnie, la fanciulla del West..

Una situazione del tutto diversa è quella presente in opere precedenti scritte nell’Ottocento. Nell’ Eugene Oniegin (1879) di Chaikovskij (da Puskin), il personaggio principale dell’opera, non è, di fatto, Oniegin, ma Tatjana. E’ Tatjana che alla fine terrà le fila degli eventi, comanderà sullo spazio e il tempo:: da un lato qualcosa di lei muore e dall’altro vive nella sua rivincita, nell’affermazione della sua volontà: non morte, dunque, ma vita. Tatiana ama, Tatiana soffre, Tatiana sposa, senza amarlo, un importante personaggio dell’aristocrazia russa, Tatiana, pur mantenendosi innamorata di Oniegin, dopo il rifiuto di lui, si ribella preferendo la realtà in azione ai suoi sogni. E’ la donna che ama e che soffre ma che decide gli eventi della propria storia. Sin dal primo atto dell’opera, Tatiana, fanciulla adottata da una ricca famiglia di possidenti terrieri, dopo il primo incontro con il giovane Oniegin, s’innamora pazzamente di lui, e non esita, in un clima di grande austerità morale, a scrivere immediatamente, durante una notte tempestosa per il suo animo, una lettera al giovane amato, confessandogli il proprio amore, il proprio ardente desiderio. Questo sentimento non nascerà sotto la buona stella dato che il giovine altri non è se non un avventuriero, un arrivista e un giocatore d’azzardo. Chaikovskij scrive una delle più belle pagine del teatro romantico nella scena notturna della scrittura della lettera. Ma tra le ansie che si rivelano in questa mirabile pagina, qualcosa di inconfondibile viene fuori: una donna con dei sentimenti veri, che si oppone, a costo di scelte difficili, ad una società formata sulla repressione, una società della frustrazione. Essa proietta la sua storia oltre ogni pregiudizio morale, oltre ogni ipocrisia. Tatiana, nel terzo atto dell’opera, infatti, non accetta il ritorno frustrato del giovane che vorrebbe riconquistarla: si vota ora ad una nuova scelta di vita: essere coerentemente lontana da lui, rimanere fedele al nuovo marito. Comprende che il passato e il presente vissuti coerentemente sono il susseguirsi d comportamenti conseguenti e volontari..

Più ancora che fedele nell’ideale di amore ad oltranza, ma calcolo politico, esprime il personaggio di Marina, futura zarina di Russia, nel Boris Godunov (1874), opera che Mussorgskij scrisse e riscrisse in più tempi, sul testo omonimo di Puskin. Compagna e futura sposa di Dimitrij, (storicamente considerato il falso Dimitrij) futuro zar di Russia, anche se per poche settimane, Marina, figlia del Principe di Polonia, bellissima e affascinante, si presenta ad una festa alla corte polacca accompagnata da numerosi cavalieri che la corteggiano. I suoi giudizi su gli uomini non sono lusinghieri, e ad un tratto appare il giovine Dimitrij, pretendente al trono di zar, che cercava nei polacchi gli alleati ideali per prendere il trono di Russia, Egli, falso figlio di Ivan il Terribile, fortemente innamorato, avanza pretese su di lei. La donna, in apparenza, non sembra visibilmente innamorata. Alla vista del giovine, Marina escalma:

E ben so tutto. Non dormi più, e notte e dì, e non fai altro che pensare a Marina. Non son venuta qui per far con te discorsi vani su l’amore. Tu, da sol, puoi ben spassarti a sognar e spasimar d’amor per me. No! Non resterei commossa affatto se anche tu sacrificassi a me la vita tua. Ma dì, da Zar, a Mosca, quando vai? Dimitrij resta impacciato: non sa più che dire; “ Da Zar? Marina, mi spaventi il cuor ! sarebbe vero che lo splendor del trono, ed uno sciame vil di servi adulatori t’hanno spento in cuor l’amor per me? …… Risponde Marina sempre più fredda e insensibile alle profferte dell’amante: Ma basta! (canticchiando una mazurca polacca con un insistenza davvero oltraggiosa per il giovane Dimitrij) “La capanna ed il tuo cuore li conosco molto ben! Che bisogno abbiam di regno? Noi vivremo di solo amor. Senti ben Zarevic, se vuoi soltanto amore la scelta è molto facil. Ci sono tante russe, e belle, e fresche, da l’occhio ardente”. Dimitrij non demorde, continua le profferte, le lamentele. Marina alfine conclude, con un ironia davvero beffarda:” Su, sentimentale amante, non restar così per terra…. Va, o martire, tu mi fai davver pietà! Io ti compiango perchè soffri. Ti consumi per Marina . Notte e giorno tu la sogni, e dimentichi corona, Russia e lotta con Boris!……” Al massimo del beffardo “ Va. O servitor! Va! Sei vil! “. Ma dietro questa posizione di Marina c’è il programma di diventare accanto al falso Dimitrij, zarina di tutte le russie, sobillata dal padre e dal patriarca polacco che ha mire cattoliche su l’impostazione religiosa ortodossa russa. Più tardi Marina si

fingerà appagata delle promesse di Dinitrij e, sembrerebbe acconsentire ad amarlo, marcerà con lui su Mosca; ma sfuggirà alla vendetta dei moscoviti, quando, Dimitrij, ormai divenuto zar, sarà scoperto come falso erede di Ivan e ucciso, fatto a pezzi, le sue spoglie sparate da un cannone verso l’occidente. Marina, cattolica convinta, che, secondo la storia, riuscirà a sfuggire alla morte, fu costretta dal patriarca Rangoni a fare questa politica: in lei si affaccia l’idea di servire innanzitutto la patria. Nell’opera di Mussorgskij il personaggio di Marina, la polacca, è secondario; vale a dire, non è presente più che in due scene. Ma Mussorgskij la dipinge sarcasticamente attraverso questo carattere di danza festaiola polacca, che pone in risalto il senso mondano, la furbizia politica della donna.. Marina è un personaggio secondario, rispetto a Boris e a Dimitrij,. ma un’ entità umana così beffarda e femminista nell’ opera ottocentesca non s’era mai visto. E tanto meno, nella allora retriva società russa..

Di natura più femminile, ma non meno aggressiva è il personaggio della principessa di Chemakàa nell’opera Le coq d’or (1905) di Rimskij Korsakov. Tutto in Puskin lavora per favorire l’intelligenza, la femminilità, l’arguzia della donna rispetto all’infermità mentale dell’uomo. Lo zar Dodon è semplicemente ridotto ad un burattino, un povero scemo in balia degli avvenimenti e di lei.. Puskin non risparmia alcuna offesa e derisione alla figura di uno zar inetto e dormiglione, non responsabile di fronte alla nazione. La fidanzata dello zar, la principessa di Chemakàa che si presenta sulla scena avvolta da uno stuolo di servitrici, femminilissima e dolcissima, ha invece ucciso i due figli dello zar per difendersi dalle loro insidie sessuali. Accetta di divenire la moglie di Dodon, ma nel frattempo lo deride in tutti i modi, obbligandolo, per mostrarle amore, ad ogni sorta di peripezia e pantomima fisica, sino a renderlo uno zimbello. Come se non bastasse ci si mette anche la servitù di lei, che cantando una delle più belle canzoni russe, rivela verso di lui il disprezzo più totale. Le ancelle della principessa sfilano verso il palazzo reale portando gioielli e oggetti personali della principessa.

Lo zar Dodon: “Il mio cavallo, una carrozza d’oro nella quale la zarina possa viaggiare!”

La Principessa: Sorelle, chi è colui che zoppica vicino a tanta bellezza”..

Le ancelleE’ uno zar per il rango e per l’abito, ma uno schiavo nel corpo e nell’anima .

A chi assomiglia? A un cammello con quello strano aspetto curvo, con le sue smancerie e la sua condotta. E’ davvero una scimmia! (Puskin non scherza quando si tratta di satira politica)!

Ha il cuore serrato ai nobili sentimenti, lo spirito abbietto ed inerte.

Tra i belli dagli occhi luminosi lui sembra un fantasma”.

Lo zar Dodon : ”Annuncia la nostra vittoria. Porto a casa la sposa!”

Dodon non sembra darle peso: o tale disprezzo della principessa è invisibile agli occhi dell’innamorato.

La lingua di Puskin si imponeva sull’ intellighenzia russa. Noi sappiamo quanto abbiano pesato gli scritti di Puskin sulla casa dei Romanov.. Egli ( che ebbe l’umiliante titolo di paggio di corte), fu più volte allontanato ed esiliato in terre lontane da Mosca. Alcune male parole furono la causa di un duello mortale con un nobile. Puskin morì. L’arte morì e l’ipocrisia ebbe la meglio! Comunque il personaggio della Principessa è chiaro, lampante. Una vera approfittatrice che si avvale delle sue grazie per pretendere il potere e tiranneggiare giustamente uno zar idiota..Ma in questo senso la Principessa di Chemakaa è assolutamente nuovo nel teatro d’opera. la beffa e la derisione ricordano l’atteggiamento delle donne nel Falstaff di Verdi. Ma Falstaff era solo un vecchio impacciato, mentre Dodòn è uno zar. La Principessa di Chemakàa è dunque un passo in avanti rispetto alla passività decadente delle eroine pucciniane. Come Minnie conduce l’azione là dove il gioco è difficile..

Abbiamo visto, comunque, fin qui personaggi femminili dotati di grande personalità, capaci di esprimersi e di comportarsi coerentemente, attraverso l’amore fisico, l’amore spirituale; capaci altresì di dare all’occorrenza, tagli netti con una realtà ingiusta, per mutarla a loro vantaggio, anche sacrificandosi; oppure seguendo il proprio programma di successo, con una volontà, un’arguzia e una determinazione ottimali.

Ma non solo per l’amore di un uomo, ma anche per l’amore divino, la donna, una suora, appunto suor Susanna, è disposta ad immolarsi e farsi murare viva. E’ lo straordinario caso di Sancta Susanna, che per esaudire il suo irrefrenabile desiderio di una erotica quanto spirituale, esaltata masturbazione con il crocefisso, non solo accetta di morire, ma esige, con una volontà non rassegnata, la sua condanna. L’opera, Sancta Susanna (1923), venne scritta, dall’allora giovanissimo compositore tedesco Paul Hindemith) che sfoggiò una prepotente carica espressionista, che nulla aveva del misurato linguaggio neoclassico dell’ultimo Hindemith: un linguaggio forte, divampante, potentemente aggressivo, per descrivere le turbe della mente di una suora che voleva mettere la propria femminilità e bellezza al servizio del Cristo. L’opera data quest’anno alla Scala non manca, da un lato di sedurre gli spettatori, e dall’altro di turbarli: L’eccessiva brevità dell’evento non aiuta certo il pubblico ad entrare in sintonia con i sentimenti che s’impossessano della religiosa. Susanna affronta tutto questo per amore? Si! Per amore, perché è tramite il suo amore per il Cristo che Susanna scopre in se stessa la sua femminilità e decide volontariamente di esaltarla in un atto masturbatorio condannato con la pena di morte. Il suo principale peccato apparirà quello di denudarsi davanti al crocefisso. Giovane e bella, si denuderà, strapperà il perizoma dal crocefisso, e si abbandonerà a lui estasiata da un delirio di mistica sensualità. Lo farà in una comunità repressiva e gerontocratica, che pretenderà, prima la confessione e poi la morte della suora. Ecco dal testo di Stramm, un testo occulto, di raffinato silenzio verbale, suffragato da una musica potente.

Susanna:”Sorella Clementia, io sono bella! Io sono bella! …”- “Io….Io vedo il corpo radioso scendere giù (dal crocefisso). Io lo sento allargare le braccia”. Ripeterà meccanicamente come in una vana preghiera, Clementia, l’altra suora, assistendo atterrita alla scena:”Castità…povertà….obbedienza…castità ….povertà… obbedienza”.

Susanna sarà accusata di satanismo, e le sarà ingiunto, dalle sorelle del convento, di confessare il suo peccato. Susanna coerentemente, non si pente, ma reclama, come un’ allucinata, la giusta punizione, avvenuta anche per un’altra suora: essere murata viva. Vi è in Susanna una volontà, esaltazione pura, diciamolo, di far rivelare ed esplodere in lei, la completezza cosmica del suo amore per il Cristo: un amore che non può avere soglie, limiti, confini di alcuna sorta: una esplosione che verrà sottolineata efficacemente dalla musica. In quanto il suo amore è totale, il suo corpo quanto la mente, è chiamato all’amplesso divino. E’ un atteggiamento tutto femminile, con una notevole vena fanatica, di cominciare a porre in primo piano la propria ribellione, l’iniziativa del soggetto rispetto ad abitudini vecchie e impolverate . E’ comunque un caso limite! Ma che all’epoca in cui uscì, l’opera, che portava gli augusti nomi di Paul Hindemith per la muisica e August Stramm per il libretto, non ebbe vita facile, non è difficile dedurlo.. Il soggetto scabroso fu interpretato come blasfemo, Fritz Bush il direttore d’orchestra incaricato, si rifiutò di dirigere la prima che ebbe poi luogo a Francoforte nel 1922 sotto la direzione di Ludvig Rottenberg. Creò scandalo e un successivo atto di protesta della Lega delle Donne Cattoliche, tanto che il compositore fu costretto a ritirare l’opera dalle scene. Anche a Roma nel 1977 l’opera attirò i fulmini del Vaticano, con notevoli complicanze politiche.

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Mai Debussy scrisse una musica più tenue e delicata come nell’opera Pelleas et Melisande (1902), sul testo del poeta simbolista belga Meterlinck, per trasmettere l’impressione tutta misteriosa ed enigmatica di una donna, c ausa, personificazione e vittima di un destino fatale, che porterà l’intera nobile famiglia, di cui ella è parte, alla dispersione e distruzione. Melisande sposa il Principe Golaund, ma presto si innamora del fratello di lui, Pelleas.

Melisande darà alla luce un figlio, ma sarà causa, per la sua nuova famiglia, di un processo ineluttabile verso la morte, verso un destino senza speranza e senza felicità. Motivi primi: la sua bellezza, la sua fragilità, la sua ribellione alla tetra staticità che la circonda.. Ma soprattutto l’ accettazione di un qualcosa di predestinato che vive nel capolavoro di Debussy in tutte le sue misteriose pieghe.

Allo stesso modo la più cosciente Marie, nel Vozzeck (1925) di Berg, moglie di un poveraccio umiliato da tutti, un soldato semplice senza ne arte ne parte, accetta la corte di un soldataccio più avvenente quanto volgare, il Tamburmaggiore, che la stupra, e la corteggia sfrontatamente davanti al marito stesso. Vozzeck in preda ad una sorta di pazzia provocata dal disprezzo di tutti, il dottore, il capitano, la moglie, il tamburmaggiore, che lo aggrediscono ripetutamente, medita di uccidere Marie. Infatti, un giorno, la donna viene trovata assassinata in uno stagno. Qui, Marie è una personalità conscia della sua povertà, della sua animalità di puttana (dice al figlio piccoletto “Povero figlio di puttana”) ma non può far niente, non può reagire. Come Melisande va anch’essa dritta verso la propria fine. Le cause sono tante, dalla stramaledetta povertà, all’ipocrisia della società. Unica cosa: a differenza di Melisande, essa è cosciente del proprio comportamento…

Differentemente dalle eroine citate all’inizio di questo nostro saggio, Marie e Melisande, come la Mimì di Puccini, sono donne, che, per la loro gracilità etica sono vittime, incoscienti o meno, di chiunque, non riescono nemmeno a conquistare una propria identità antiborghese; sono incapaci di reagire creando un solido muro contro l’ipocrisia, come Tatjana e come Susanna . Il caso più disperato, la Mimì di Puccini muore come i poveri che più poveri non si può, senza un lamento, senza una più che minima opposizione a quella società che ha decretato la sua morte per povertà: qui tutto è pietà, commozione. Tuttavia il caso di Violetta, anch’essa morente di tubercolosi, ne la Traviata di Verdi ha una qualche diversità, per il fatto che Violetta vive con un grande contegno il proprio amore verso Alfredo, attraverso la coscienza della sua diversità dal mondo dell’amato.

Ma nel mondo attuale, non c’è più posto per queste donne che muoiono indisturbate nel frastuono di Parigi. Sono personaggi troppo palesemente passivi.

La donna moderna è più vicina al personaggio di Marina; non più vittima di un amore idealizzato verso un uomo; capace di rimettersi in dubbio giorno per giorno, di raggiungere dei fini con coerenza, di innamorarsi, ma anche di considerare fondamentali il suo ruolo nella società, i suoi impegni il proprio credo spirituale. La donna moderna non assomiglia ne a Mimì, ne a Marie, tantomeno a Melisande, e più che mai a Violetta . La donna moderna, specialmente dopo il periodo femminista degli anni Settanta, può fare riferimento solo a personaggi femminili come Tatjana, Marina, la principessa di Chemakàa, dove il ruolo dell’innamorata c’è e non c’è, è superato dall’esigenza di autonomia; e se c’è, comunque un innamoramento, non è esso definitivo, non fondamentale alla sua missione di vita: missione che parte dalla ribellione per proiettarsi verso il progresso di se stessa. Anche lo stesso caso di Suor Susanna è estremamente moderno. Nonostante l’ostentazione da parte della suora di non sottrarsi all’essere murata viva, come era convenzione per chi peccava all’interno di un convento, è una formidabile pietra scagliata contro l’ipocrisia, la regola, la stereotipata e rigida convenzione dell’apparato ufficiale, dove la protagonista rifiuta un ruolo prettameente passivo nella sua ascesa spirituale, e scopre invece, necessaria, vitale la sua creatività

Attraverso l’evoluzione della società nel Novecento, il nuovo rapporto della donna moderna con l’uomo, da una dichiarata sudditanza, diviene dunque paritario. Dove, semmai, la donna, dotata di arti politiche straordinarie, fascino riconosciuto, ritrovando finalmente se stessa, la propria autonomia di giudizio, il proprio senso delle cose, collabora anche alla costruzione dell’identità e dell’avvenire del proprio uomo; ma allo stesso tempo, diviene fiera della propria intelligenza, della propria capacità di giudizio, della propria autonomia nel lavoro, delle proprie ataviche origini femminili, spronando il compagno a radicali cambiamenti di se stesso e della propria vita. Se la figura della donna innamorata, nell’opera romantica, vuole comunque il sacrificio, la morte, il personaggio femminile più vicino alla modernità è dunque quello della Fanciulla del West: qui non si muore, si vive e si ricomincia daccapo la propria vita, da sola, o con il compagno amato accanto. Questo è quello che pensa Minnie.

Questi straordinari personaggi testè descritti, maltrattati, devo dire, dalla critica dell’epoca, incapace di accettare un’ indole così forte in una donna, non ha dato sviluppo alla nascita di nuovi personaggi femminili d’opera che partissero da la stessa rivoluzionaria modernità.

Non è improbabile che la visione di un nuovo tipo di donna avventuriera, in qualche modo posseduta anche dalle caratteristiche del cinismo e della razionalità maschile, che è poi fortemente rappresentata dal cinema americano di oggi, possa influenzare anche giuste riflessioni o dinieghi da parte dei compositori moderni; e, di fatto, le opere di Stockhausen, di Nono, di Berio, preferiscono parlare di miti antichi e moderni, di opposizioni economiche e sociali. La donna moderna, emancipata, combattiva, sulla spinta del necessario femminismo, non ha fatto ancora ingresso sulle scene della Lirica del tardo Novecento e del Duemila. Eppure nella realtà attuale le donne possono partecipare tranquillamente ad attentati, colpi in banca, stragi, operazioni di guerra, imbrogli al gioco e furti notevolmente pericolosi, al limite della moralità, emulando audacemente i presupposti storici di una Dalila, capace di continue modificazioni d’umore e di condotta, Carlotta Cordey, assassina di Marat; di Marija Volkonskaja, moglie del principe Volkonskij, che alla vita degli agi di S: Pietroburgo preferì l’umiliazione, la sofferenza, seguendo il marito in Siberia; di Rosa Luxenburg, che non si lasciò intimidire dalla prigionia, dall’umiliazione. Ora l’emancipazione va bene! Accetteremo anche legioni di Carlotte Cordey, pronte ad ingannare e uccidere. Ma la natura ha le sue leggi. Guai se la femminilità, argentea seduttrice, darà posto a sintomi di una mutazione genetica che farebbe perdere alla natura universale il suo messaggio di complementarietà dei sessi, e conseguentemente annullando, nella vita sociale, nella letteratura e nella musica le profonde differenziazioni caratteriali e psicologiche (in bene e male) tra uomo e donna. Le caratteristiche sessuali si appiattirebbero, e, sopratutto la grande dialettica della musica, frutto di tre secoli di esperienza, perderebbe di ricchezza: regnerebbe l’indifferenziazione e la noia assoluta.

Milano, 22 Dicembre 2006

4 comments

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