ETICA DELLA SCRITTURA NELLA SOCIETÀ NARCISISTA.
Di Franco Romanò
C’è un passaggio importante, nella prolusione di Le Cleziò in occasione del conferimento del Nobel per la letteratura. Essa suona così: “scrivere significa non agire”. Un’affermazione così perentoria escluderebbe dal campo della letteratura qualsiasi riferimento all’etica che per sua natura rimanda anche a comportamenti, prese di posizione e azioni.
È evidente che se s’intende in senso stretto l’atto dello scrivere, si tratta certamente di un esercizio solitario, silenzioso, dal movimento assai contenuto: far scorrere la mano su un foglio di carta, pigiare un tasto ecc. Nell’ipotesi più generosa possiamo estendere tali movimenti a un giro intorno alla stanza, al farsi un caffè mentre si sta meditando per poi tornare a scrivere.
Se s’intende invece ciò che avviene dopo che un testo ha lasciato il suo autore e inizia ad andare per il mondo con le proprie gambe, allora bisogna dire che gli esempi scelti dallo scrittore francese sembrano suggerire che la letteratura è in realtà una potente suscitatrice di azioni, oppure di sentimenti che a loro volta daranno luogo ad azioni, anche se esse potranno avere segni imprevedibili e addirittura opposti in soggetti o ambienti culturali diversi.
Il famigerato La capanna dello zio Tom (scelto da Le Cleziò, fra i suoi esempi), è un libro abbastanza noioso e quasi illeggibile nella sua edizione completa; ciononostante è stato per coloro che appartengono alla mia generazione, un potente strumento di formazione di una cultura antirazzista, anche perché fummo fortunati nel leggerlo nella versione ridotta per bambini e adolescenti; versione che giova certamente al libro! Ai giovani di oggi, invece, penso che questo libro non sia in grado di suscitare alcunché: anzi, dopo che i testi dei poeti, degli scrittori e dei saggisti afro-statunitensi degli anni ‘60 sono stati tradotti anche in Italia, si è capito che per loro, zio Tom era un appellativo addirittura insultante, significando il nero acquiescente, sottomesso, con il cappello in mano e pronto a inchinarsi al bianco. Molte azioni dei neri americani furono ispirate proprio dalla ripulsa di un romanzo che per noi qui era additato ad esempio di cultura antirazzista! Le bagatelle per un massacro di Céline, d’altro canto, con il loro esibito a radicale antisemitismo avranno rafforzato alcuni nelle loro convinzioni razziste, ma spinto altri al polo opposto.
Cosa può significare tutto questo? In prima istanza che la letteratura non ha alcuna etica in sé, che non deve rispondere di nulla e che se suscita azioni di qualunque tipo, esse non hanno che un rapporto labilissimo con il testo che le ha suscitate. Tuttavia la cosa non è così semplice, perché se lo fosse non si capirebbe perché mai tutti i poteri religiosi e politici, in tutte le epoche, si sono interessate fin troppo da vicino alle opere artistiche e agli artisti; tanto da mettere in campo potenti strumenti di censura, controllo e molto di più. Questo significa che l’opera d’arte e gli artisti sono stati portatori di un’etica che è difficile da definire (e che forse non si può definire) ma che è certamente in contrasto con quella di cui sono espressione altri poteri; il che significa che un potere ce l’ha eccome! Il che a sua volta non significa dire che il suo potere sia per definizione migliore degli altri. Sostenere questo vorrebbe dire cedere a una visione titanica dell’artista, al di sopra di ogni cosa e di ogni morale che è semplicemente un delirio romantico-narcisista; a parte la considerazione assai attuale, che il potere culturale è oggi ben più pericoloso di quello politico per uno scrittore.
La rivendicazione della libertà d’espressione e ricerca (e quindi il conseguente rifiuto di ogni censura) come unico criterio etico di riferimento per scrittori e artisti, è sembrato dal 1700 in poi l’unica bussola da usare.
La domanda che si pone agli scrittori e anche ai poeti nella società occidentale di oggi è però questa: oggi la letteratura possiede ancora questa capacità di rappresentare un potere altro? Dal momento che la cultura di massa ha dato a una moltitudine sempre crescente la possibilità di esprimersi artisticamente senza rischio alcuno (specialmente nel campo della scrittura letteraria e salvo rare eccezioni), il principio della libertà d’espressione è diventato una moneta assai inflazionata perché a essa non corrisponde più il valore reale di opposizione che aveva. Si è più liberi di esprimersi, ma questo interessa sempre meno il potere, ma anche il pubblico, che si dedica ben più volentieri alla letteratura d’intrattenimento e allo spettacolo, perché ciò che conta maggiormente oggi è di potersi rispecchiare in qualcosa: la grande massa lo fa tramite il mezzo televisivo, la comunità degli intellettuali e degli artisti tramite il rispecchiarsi reciproco all’interno di una moltitudine di solitudini. Anche per questo prevalgono strumenti di divulgazione e comunicazione (mi riferisco alle riviste su carta in particolare, ma non solo), che sono grandi o piccoli contenitori, i quali, lungi dall’essere un esempio di libertà d’espressione e sodalizi basati su un intento comune, sono in realtà piccoli o grandi supermercati culturali, dove ciascuno può lasciare o prendere (a seconda che sia di volta in volta pubblico o scrivente) ciò che gli serve, nell’indifferenza di ciò che sta a fianco sullo stesso scaffale. Del resto avviene così anche nelle librerie, dove, sotto la voce poesia si possono trovare l’uno accanto all’altro un’antologia di Seferis e Poetastro di Michele Serra. Questo trionfo della democrazia e della libertà avviene all’insegna del tutto indifferenziato: se nel socialismo reale tutti dovevano indossare camicie dello stesso colore, nella società occidentale odierna sono i prodotti culturali ad avere tutti lo stesso colore!
Il principio della libertà d’espressione, affidato individualmente all’artista in quanto singolo, porta al suo svilimento progressivo. Quando nacque era necessario e sufficiente in quanto introduceva un principio di verticalità rispetto all’orizzontalità di poteri assolutisti: intellettuali e artisti erano i rappresentanti della Libertà come principio e il pubblico sarebbe stato il loro committente. Oggi possiamo dire che il pubblico può essere anche molto peggio del principe e che scrittori e artisti incarnano il principio della libertà d’espressione limitatamente a ciò che individualmente portano nel grande mercato dell’industria culturale consumistica, indifferenziata e specchio della società dell’apparenza (o narcisista), che lo produce.
Come uscirne? Coltivando una marginalità consapevole, che, prima di tutto, non riproduca in piccolo gli stessi meccanismi del consumismo culturale. Per cominciare a farlo credo sia necessario che le aggregazioni nascano su idee forti e prospettive profondamente condivise, basate cioè sulla differenza riconoscibile. Per fare questo, a mio giudizio, occorre anche sfatare il mito del confronto orizzontale come valore in sé, dove opinioni diversissime coesistono nello stesso ambito ma in realtà non si confrontano affatto; piuttosto vengono allineate una accanto alle altre come in una passerella.
Condivido al 100% la lucida analisi di F. R. Soprattutto l’ultimo paragrafo sul “come uscirne”, le cui indicazioni mi paiono però alquanto utopistiche.
Concordo sulla difficoltà (o impossibilità) di dare indicazioni – che non possono scaturire da questo o quel singolo operatore -, ma proprio per questo ho sollecitato commenti su cui, poi, provare a innestare incontri, confronti e proposte condivise.
eccellente
tutto bene quello che dice Franco
aggiungo qualche considerazione :
– nella situazione attuale le peggiori limitazioni
alla libertà sono quelle che ci imponiamo da noi stessi
– nel lavoro delle riviste, non rinunciare mai alla differenza quale condizione imprescindibile per qualsiasi confronto
-provare sempre a non cadere nella trappola del “PREDICARE BENE E RAZZOLARE MALE”
Tre veloci appunti prima di riprendere con più calma la questione:
1) “Questo trionfo della democrazia e della libertà avviene all’insegna del tutto indifferenziato: se nel socialismo reale tutti dovevano indossare camicie dello stesso colore, nella società occidentale odierna sono i prodotti culturali ad avere tutti lo stesso colore! “
Perché parlare di “trionfo della democrazia e della libertà”, quando si tratta di un trionfo dell’individualismo? La democrazia individualistica è zoppa (una volta si diceva: è borghese).
2) “Il principio della libertà d’espressione, affidato individualmente all’artista in quanto singolo, porta al suo svilimento progressivo. Quando nacque era necessario e sufficiente in quanto introduceva un principio di verticalità rispetto all’orizzontalità di poteri assolutisti: intellettuali e artisti erano i rappresentanti della Libertà come principio e il pubblico sarebbe stato il loro committente.”
La libertà d’espressione dell’artista è stata storicamente inseparabile dall’ascesa della borghesia e quindi di una classe sociale precisa. Singolo e classe hanno conquistato la “loro” libertà appellandosi ad un astratto “principio di libertà”. Non si può parlare dell’artista astoricamente senza collocarlo in una società. Lo “svilimento progressivo” del principio di libertà vale allo stesso tempo per il singolo e per la collettività in cui è inserito. Non c’è individuo al di fuori di una società. Vi ricordate le cose che Marx chiamava “robinsonate”?
3) “Come uscirne? Coltivando una marginalità consapevole, che, prima di tutto, non riproduca in piccolo gli stessi meccanismi del consumismo culturale. Per cominciare a farlo credo sia necessario che le aggregazioni nascano su idee forti e prospettive profondamente condivise, basate cioè sulla differenza riconoscibile. Per fare questo, a mio giudizio, occorre anche sfatare il mito del confronto orizzontale come valore in sé, dove opinioni diversissime coesistono nello stesso ambito ma in realtà non si confrontano affatto; piuttosto vengono allineate una accanto alle altre come in una passerella. “
La”marginalità consapevole” è … ai margini dei “meccanismi del consumismo culturale”. Ci vuole una “criticità consapevole” anche se dovesse partire dal margine. Le “idee forti” nascono se quelli che stanno ai margini non accettano di restare ai margini e dicano, provochino, attacchino i “meccanismi del consumismo culturale”, che – ripeto – invade anche chi sta ai margini.
Mi trovo d’accordo con Franco, in particolare sull’ultimo paragrafo relativo all’impossibilità (o inutilità, in quanto falsa democrazia) di una coesistenza orizzontale di idee.
La necessità di idee forti su cui confrontarsi è un’esigenza sempre più impellente, ma è proprio la mancanza di tali idee che ci sta portando a uno stato simile all’afasia.
Possibile che non si riesca a superare questo impasse?
Grazie dei vari commenti, da quelli più sintetici a quelli più articolati (come di Ennio Abate). Riscontro una giusta tensione critica e autocritica rispetto alla marginalità, non solo di chi riflette sui problemi posti, ma dell’insieme degli operatori culturali – anche di quelli che sembra abbiano più potere. Esserne consci non salva da o garantisce alcunché, ma impone l’onere di una ricerca di aggregazione di forze su idee che aiutino a toccare la radice dei problemi che stiamo vivendo, tra i quali quello sintetizzato dalla domanda di Laura Cantelmo.
Rprendo un concetto di Laura, anzi la sua domanda finale. Possibile che non si riesca a uscire da questa impasse? Credo che sia la domanda piu’ importsnte e la difficolta’ a uscirne, pero’ e’ davvero storicamente determinata da qui nasce la difficolta’, il cui superamento non puo’ essere volontaristico. I meccanismi intrinseci di questa societa’ sviliscono ogni dinamica culturale critica in partenza mentre non esiste un soggetto che la rivendichi come necessita’. Bisognerebbe dire perche’ e’ ancora necessaria: ma a chi dirlo? Affermare come fa ennio che la liberta’ d’esprssione e’ inscindibile dala classe che esprimeva wuella cultura e’ ovvio ma non ci fa fare un solo passo avanti: quale criticita’ necessaria se nessuno la richiede? Dove sta il soggetto che la richiede? E se non la richiede nessuno che si fa?