Resoconto e testi di Quintocortile 2019

Pubblicato il 20 giugno 2019 su Resoconti da Adam Vaccaro

Resoconto, immagini e testi di Quintocortile 2019

Si è chiusa con riscontri ancora molto positivi questa ulteriore Rassegna annuale di PoesiArte di Quintocortile. Riscontri sia a livello di partecipazione di pubblico, che di elaborazioni artistiche e di testi relativi alla tematica proposta. La memoria coinvolge tutti in svariatissimi modi, personali e collettivi, ma soprattutto – nell’epoca che stiamo vivendo – spinge a riflettere sulla sua funzione insostituibile rispetto alla tendenza a ridurla a scarto superfluo nel trionfo in atto dell’ideologia del mercato.
Grazie perciò a tutti coloro che hanno offerto contributi contrari e resistenti, per dire che vogliamo essere ciò che siamo, nel nostro stare qui, innervato in un processo complesso che non si esaurisce certo nell’essere consumatori e attori di scambio di merci.
Il tema della memoria non poteva non dedicare particolari intensi pensieri alla presenza in noi di Donatella Airoldi, cara amica e compagna che è stata al nostro fianco in tutte le precedenti edizioni di Quintocortile, e che l’anno scorso ci ha purtroppo lasciati.
Invito ora tutti gli Autori che hanno partecipato a inviarmi un testo, scelto tra quelli che hanno letto, che verrà inserito in un post sul Sito di Milanocosa, quale memoria di questa ennesima occasione in cui abbiamo dato il nostro contributo di senso e di esperienza al bisogno di una comunità. Senso sicuramente reso più vivo e concreto, sia dai contributi musicali offerti da Marco Saya e Stefano Tampellini, che dalle conclusioni conviviali.
Nel post anche le immagini da chi ha avuto il merito di riprenderle nel corso delle due giornate.

Adam Vaccaro

***

Selezione Foto e Testi Letti

(ulteriori testi inviati verranno aggiunti)

di

A. Vaccaro, F. Buffoni, L. Ariano, P. Quarta, G. Graziani, R. Caddeo, F. Ravizza, C. Azzola, L. Cannillo, A. Spissu,

G. Leccardi. A. De Pietro, M.C. Baroni. A. Paganardi, L. Cantelmo

***

Adam Vaccaro

Memorie del futuro (*)

La cenere dei fumi di Auschwitz
così bianca e viola infine rossa
batte batte dentro al cuore come
blatta che non volerà rimarrà

a rodere tra questi ruderi nutrirà
il nostro sangue nero sconfinato
insaziabile non si fermerà vorrà
sfamarsi di ogni sangue e vittima

diventata cenere deporla
nelle mani di Cerere a farne
messi di una Terra non più
prona a poteri e follie di ieri e

di oggi che sappia pesare
sulla stessa bilancia ogni
grammo di carne umana
rossa poi viola infine bianca

offerta al dio di tutti
i popoli di tutte le terre
ricche povere e senza
privilegi né figli prediletti

di una Terra non più
crocifissa da confini e
tavole imbandite da eletti
assediate da cumuli di blatte

affamate impazzite –
se questo è un uomo
2006

(*) Nell’antologia, 25 poeti per il giorno della memoria, a cura dell’Associazione per la storia e la memoria della repubblica, e dei Comuni di Civitella in Val di Chiana e Monte San Savino, 27 gennaio 2006. E in Seeds, Chelsea Editions, New York 2014

***

Franco Buffoni
(Poesie 1975-2012, Oscar Mondadori 2012)

Nel più alto campo di battaglia

Nel più alto campo di battaglia
Della Prima guerra mondiale,
Ai tremilaseicento dell’Ortles-Cevedale,
Dove fu morte sotto le valanghe
O dentro i tunnel scavati nel ghiaccio
Da entrambi i contendenti bombardati,
I tre asburgici trovati ieri
Mummificati con le bombe a mano
In numero di ottanta, venticinque
Chili di esplosivo e più di mille cartucce,
Paiono macchine da sopravvivenza
Per ramificazione di licheni
Propagati dalle vette
Mentre il flusso dei detriti
Riflette spicchi rossi dall’aurora.
Che altro si potrebbe chiedere
– In attesa che il genio militare
Faccia brillare l’esplosivo –
A una natura
Che tanto si cura
Delle sue creature?

***
Luca Ariano

Pochi giorni fa dal treno
– l’ultima volta –
campi spruzzati di neve
nell’illusione d’inverno.
Ora rotaie di nebbia
e in quella bettola
si arrivava in barca:
pare frequentata da Ariosto…
Tasso, ora un menù turistico.
Non sono lontane
le luci della centrale a turbogas
e rimbombano parole:
«E ci fregano sempre!
E ci fregano sempre!»
Vedrai schiere di vagabondi
come una tela fiamminga
ma saranno Uomini marchiati a fuoco,
schiavi di robot…
La città modernissima sarà reperto
di epoche umane:
resti di civiltà come quelle mura
che osservi una domenica di vento
e dal finestrino un cielo arancia
con vista San Luca
nascosto tra cavi e pali,
l’ultimo del tuo lungo anno.

***

Paolo Quarta
Paternale – Filiale

Filippo Quarta
Lo sguardo fanciullesco… la mente alleggerita…rotolo giù da una collina, cambio prospettiva… davanti a me c’è l’orizzonte, sorge un’autostrada… baciata dal tramonto, accarezzata da rugiada… memorie resistenti che si celano, dietro pensieri spenti, dietro emozioni che sbiadiscono e col tempo si consumano. Ricordano chi siamo, non importa se soffriamo al pensiero di ciò che eravamo. Ricordo l’innocenza, colma di ingenuità…
Ricordo la mattina, la colazione al bar… lo specchio rotto e i 7 anni di sfortuna, il sogno di svoltare andando sulla luna… non importa cos’hai fatto ma che cosa fai… quel che è stato è stato, non esiste il rewind… la memoria inganna non devi fidarti mai… metto in scena i miei ricordi, ma questa non è la Rai…

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Paolo Quarta
Ascolta, le note che hai scelto dilatano il pensiero, e il tempo in cui vivono le tue parole sembra già eterno.
Cammino piano sui miei piedi scalzi di speranza, ho il callo della vita che mi fa un male cane.
Eppure non dovrebbe, ormai è indurito. Ma il dolore si risveglia quando al mio passo, incerto, si affianca il tuo. In quell’istante il mio callo si agita come un pazzo, sembra voler parlare ai tuoi di piedi, leggeri e sicuri, li intralcia, si mette di mezzo, cerca di rallentare il loro cammino.

Ma ora aggiungi un attimo, aggiungi uno spazio alle note che mi butti nelle orecchie. Ecco sì, costruisci uno spazio per me tra un accordo e l’altro. Una finestra dalla quale ammirare il ricordo che ho di te, bimbo, dei tuoi passi incerti. Ma, vedi, c’è una differenza tra il mio procedere incerto di ora e il tuo di allora. Quando io cammino il mio sguardo segue il passo a terra. È la paura di cadere, di farsi male. Il passo di un bambino, invece, è insicuro perché mentre corre guarda avanti, ride, schiamazza, ma non si poggia mai per terra. Non gli interessa, non ha tempo, perché il mondo che non conosce ancora è lì, davanti ai suoi occhi, non sotto i suoi piedi.
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Filippo Quarta
Il vento tra i capelli, l’adrenalina in corpo.
La leggerezza di uno sguardo sì, me la ricordo.
Il battito di una farfalla che mi gira intorno.
Non c’è ritorno in questo racconto…
Mi sveglio! Sto correndo a piedi scalzi sulla riva mentre cerco la mia via d’uscita,
mentre assaporo questo clima.
Pieno di incertezza e di tensione, alimenta la mia confusione in questa situazione.
Non guardo in cielo, non guardo indietro.
Gli occhi sbarrati, che fissano un paesaggio etereo.
Una vacua melodia… mi prende per mano. In mezzo a questa ipocrisia… mi porta lontano.
Non mi basta più quel che ho: il quotidiano.
Vorrei qualcosa di diverso, qualcosa di strano.
Ma è impossibile cercare il nuovo, mi spaventa.
Le mie memorie fanno resistenza…

***

Giacomo Graziani

Montagne

Vi rivedo nei viaggi del pensiero
fortezze che percorsi una per una
cascate che pulsavano
dal cuore freddo della pietra
morene, rovine crocchianti
ai balzi di precipiti discese
nel regno verde di dormienti valli.

Intatte montagne, teatro severo
di sorridenti primavere
ditemi con un vortice di nembi
come sfiorarvi in questo tempo in fuga
come reggere il vostro prepotente
permanere e non infrangermi
in un abbraccio di disuguali essenze.

***

Rinaldo Caddeo

NELLA TORRE D’AVORIO

Nella torre d’avorio è ancora buio ma la scrivania, la pagina, la penna, la mano, attendono di ricevere la prima luce del sole.
Da mesi, forse da anni o da secoli, non aveva scritto un rigo.
Sono queste le prime parole.

È così immerso nei pensieri che anche la memoria si dilegua nella scia luminosa del loro rapido succedersi.
Eppure sembra tutto così calmo. Niente e nessuno li disturba: uno che bussa, lo squillo di un telefono, una voce, un eco o un alito di vento.
Tutto è immobile.

In camera c’è l’essenziale: un tavolo, una sedia, un letto, un catino d’acqua, una finestra.
C’è una scala a pioli, sempre d’avorio, che, inerpicandosi a chiocciola dal centro della stanza, porta in alto.
Dalla terrazza, in cima, si può vedere la pianura illimitata. Di giorno è una vastità silenziosa. La notte, invece, si anima di ululati, risa, lamenti, rulli di tamburo.

In un raggio di sole, entrato nella stanza, rotea la polvere dorata: cosmonauti leggeri gli atomi volteggiano nel vuoto.
Affiorata dalla superficie dell’acqua del catino, una rete di riflessi palpita nel soffitto. Crea e distrugge tentacoli incandescenti, meduse d’aria.
L’ombra delle nubi, che corrono in cielo, si avvinghia ai muri, li ricopre e ritrae una legione di fantasmi nel pavimento.

Uccelli migratori passano, volano alti, come le nuvole.
Uno, una volta, s’è posato su di un merlo della terrazza, esausto. Lui l’ha soccorso. L’uccello dalle grandi ali, si è fatto nutrire e curare. Poi, ristabilito, è volato via.
La notte porta battaglie, ingorghi, confusione, ma l’alba li spazza via.

Come è arrivato? Quando? Perché? Nemmeno se lo ricorda. Della vita precedente rammenta soltanto un dolore senza confine che l’ha costretto a andarsene e a rifugiarsi in questo luogo.
Non arriva nessuna notizia né brutta né bella. Piove, nevica o tira vento, non capita niente né di buono né di cattivo.
Reciso il filo della memoria, non sente la mancanza di niente.

Ieri, per la prima volta, è successa una cosa singolare: una folata o la mano di qualcuno ha infilato un foglio da sotto la porta. Che cosa c’è scritto, se c’è scritto qualcosa?
Ha preso la penna in mano, sta scrivendo, forse, vuole rispondere.

***

Filippo Ravizza

 

LE ALTE RECINZIONI

 

Parole che si chiudono entrano

nel novero interminabile della

quotidianità rinunciano alle

radici e allo sporgersi parole

che vedemmo diverse un giorno

quando salimmo sulle alte recinzioni

quasi potessimo volare quasi

potessimo veramente torcere

le cose cambiarle le cose intorno

con la forza possente del pensiero

di tanti tanti che si sentivano

uno ricordi? le alte recinzioni

scavalcate in qualche modo

o forse mi sbaglio forse fu solo

la forza stupenda della mente…

le belle bandiere però le ricordo

sì le ricordo c’eravamo dentro

ancora le ricordo.

 

(dalla raccolta “La coscienza del tempo”, Edizioni La Vita Felice, Milano, maggio 2017)

 

***

 

Claudia Azzola

 

Non conosciamo altro che il ‘qui’

un grumo di indicibili catene

neuronali, non conosciamo che

il ‘chi’, un affare direi rovente

da trattare, intuibile

come lo spasimo di un albero,

come l’abbandono del covile

del tasso, della lepre, della vile talpa.

 

non conosciamo che il ‘noi’, così poco poi

che tocca translitterare dal cirillico,

dal giapponese, dal finnico;

il destino è irascibile,

inconoscibile, si fa di bile

è inconoscibile, che bestia ostile!

solo un traslato, direi, per chi c’è,

chi ancora con la mente è

***

 Luigi Cannillo

                               Si raccontava ancora la storia

E il cibo perduto, una fuga, un’ideale

prima delle battaglie in miniatura

la replica delle monete e degli oggetti

Noi dalla strada o dalle antenne

la cronaca ribelle, il divenire

Benedetti settanta

La tua utopia prendeva il largo

bandito gentile, la sfida

che sulla regola vinca l’eccezione

una nuova specie in convivenza

Possiamo conservare la memoria

il parco e la fontana nella neve

Venezia che protegge i baci

ma il ritratto grida la distanza

resta avvitato al tempo

Ogni evento cede al suo presente

lo splendore negli occhi, l’euforia

sfrecciano luci nella nebbia

Restano sogni domestici, nulla

da narrare, e il tarlo nella mente

Tu perduto e chiamato mille volte

da un archivio, l’utopia ormeggiata

da Cielo privato, Ed. Joker, Novi  L. , 2005

***

Anna Spissu

UN GIORNO I PESCI RACCONTERANNO
Nella loro lingua muta

un giorno i pesci racconteranno

di averli sentiti gridare.
Diranno di averli mangiati
per compassione
perché nemmeno da morti
fossero più della razza umana.
Lo racconteranno al dio del mare
che governa un regno senza confini,
il dio del mare lo griderà al dio del cielo
che governa le nuvole
ed è la dimora dei venti
e degli uccelli,
il dio del cielo parlerà al dio della terra
e gli chiederà conto
della sua generosa vastità,
dei monti, delle pianure
delle coste, delle colline
e dei deserti.
Chiederà quanto serviva per vivere
senza tutti quei morti.
***
Giuseppe Leccardi

LEGNA VERDE

Come pesa sulle spalle

la legna secca degli anni,

sottobosco del tempo trascorso

esposta all’incendio dei tramonti

ed ai fuochi dell’ultima passione.

 

Non proverei stupore, né rimorso

se diventasse cenere all’istante

ma aspetterei paziente l’occasione

per l’ultimo abbraccio, il volo insieme,

grigie spirali dello stesso fumo.

 

Come rimpiango ora

il tempo della legna verde

che si beveva il sole a primavera

nei giorni dello studio e dell’attesa,

le strade larghe, aperte a tutti i sogni.

***

Annamaria De Pietro

 

Colombo e poi la sua famiglia –

e come intanto i mari e le terre dentro le coste

erano e furono il viaggio –

e la cerniera

 

Oltre Lisbona sta una vasta vasca d’acqua

come una lastra, perché tale appare da riva

– che pure che ne cambi il piano il moto d’onde

pure alla somma dunque diremo una lastra.

Ma anche, considerando, è fasciame di vie,

l’una che all’altra a lato, e a tempo, corrisponde,

e dentro una di queste, legata da tre, partiva

quel giorno nel viaggio Colombo dalle sue tre scie.

 

Oltre la vasta vasca d’acqua sta l’isola Staten,

che è dove spidocchiarono i bisnonni e i prozii,

e buttarono giú dalle spalle le nere mappate

con un unico gesto, come prima seminando –

che è dove su un margine stretto si arenarono i luoghi,

e non benvenuti, non benpartiti, e dove sta dove

– ma si sarà affogato di notte dalle murate

due dai due bordi insieme precipitando,

e perché quelli dormivano non ci furono addii.

 

Oltre l’isola Staten sta una paura di andare –

chi siete voi, che c’importa da dove venite,

è questo il vostro numero, non c’è il vostro nome

non scritto, che è una croce alle porte di case,

una crepa nel muro, uno sbaffo di cordite.

Cosí in croce alla larghezza quelli le vie infinite

se ne andarono incrociando dure su un duro mare

da costa a costa, ma dentro, su una nave che giace.

 

Oltre la costa di là sta una grande marea

cui rubò acqua quella terra clandestina,

l’acqua di terra d’inchiostro e pergamena

ove prua l’unghia di Colombo fende e sfrega.

E la grande marea cerca montando in piena

lontano a ritroso l’arco delle case a platea

di Lisbona perduta, ma disperante pellegrina

dall’altra parte rivolge tutto il peso e lo piega.

 

Oltre la grande marea crescono i girasoli,

viaggiano a vela i papaveri fra le corsie della neve

come le strade tra i fossi crescono le direzioni.

Passa alto, curva largo, prende un fiume fra le mani,

mentre vanno lontano ma dentro le barche e i barconi

di salnitro e di carta per masse e colori alle stive

– la terra celeste – gira attorno ad altissimi alberi soli

sopra un piatto di vento che stride come i semi o i grani.

 

Oltre la neve seccata sta Europa la bella,

e sempre e ancora la trae in groppa a rapina

il dio che è il toro, che è il prete, che è la madre di Atena.

Molte, e diverse, le quinte da mattina a mattina,

e molti, e diversi, i liquidi per lavarsi il viso,

inconfessabili io credo, e sia pure in verso e in rima.

Lungo le strade di sassi sta andando diviso

un convoglio di stracci e di nastri fino all’ultima arena.

Una muta di fari a Lisbona spia i naufragi di terra.

Note:

–  L’isola Staten al verso 9 è un falso, scoperto quando l’intransigenza della rima – qui straboccante in appendice nasale – confinò nel troppo tardi il giusto diritto di Ellis Island, che è dove…

– Le mappate al verso 11, nei dialetti di molti fra quelli che le portarono sulle navi, erano i grossi fagotti di lenzuoli o altri panni legati con due nodi in croce sopra tutte le cose loro.

– Un errore (involontario) e un’erranza nel dialetto (volontaria) connaturati da una rima. Qualcuno pensa che la rima non sia che un antiquato orpello?

***

Maria carla Baroni

AD ALESSANDRO MUSSI POST MORTEM

Per una manciata d’anni noi

due lembi di un’unica fiamma.

Sotto la cenere dei giorni andati

Amore mio perduto

Il rimpianto su sabbie mobili di morte.

Anni sono colati goccia a goccia

Sperando una speranza che non c’era.

Tu – lontano – pure eri vivo.

Ora sei solo cenere

avvolta di silente suolo oscuro.

 

Impossibile a me pare il tuo morire

delitto di natura matrigna

il finire del tuo genio.

Mai più nulla potrai pintare

narrare sognare.

Impossibile a me pare dirti addio

senza sapere se la tua arte

e il tuo nome rimarranno

cippi di luce

nell’infinito tempo divoratore.

 

Tu nei tuoi quadri nei tuoi libri

nella mia mente impotente

angoscia ricorrente.

Accetto la morte: la mia

quando verrà.

Non posso accettare

la tua.

***

Alessandra Paganardi

10 GIUGNO 1940

La radio era una grande rana scura

che gracchiava la storia. Tu ascoltavi

le sue pause, i silenzi, la mattina

di quella primavera senza estate.

 

Immaginavi il dito alzato, il sopracciglio

di paura, erano tutti fuori –

uomini ad inventare cieli accesi,

bambini che giocavano ai soldati.

 

Tu comperavi uova, riso e pane

donna che non sapevi buio e strade

e all’improvviso erano tutti spenti

come in un film veloce senza voce.

 

Ti sembrava la foto color sabbia

di quel vecchio raduno di coscritti

dove ogni anno c’era un volto di meno

e un sorriso più altrove.

 

Ti sembrava una montagna ferita

dalle cave, il brutto odore di quel marmo

strappato alla sua pancia per calare

piccoli blocchi freddi. La stagione

correva, non potevi più fermarla

come le bianche barche di cartone

nel canale da piccola.

Guardarle

passare il ponte e perderle di vista,

chiederti dove andassero a finire –

averle costruite solamente

per non saperlo mai.

***

 

 

(da “Tempo reale”, Joker 2008)

Poesia vincitrice “San Domenichino Città di Massa” 2007 (sezione.inediti)

***

Laura Cantelmo

Neve

Lacrime bianche

sullo smeriglio dei vetri graffiati.

Tratturi di rabbia, cielo di piombo.

Un rombo di vento sputa neve

su corpi inerti di sabbia.

Il ghiaccio gigante divora l’hotel

delle fiabe, la terra ferita dai monti

squartati. E nebbia.

Su tutto, nebbia, aria inerte, morte.

 

Affacciata all’abisso cerco

un barlume. Nulla se non

le grida ignorate, la neve

nelle mie vene, il silenzio, l’atroce

inganno e il cicaleccio di un’umanità

senza acume né pena.

La bufera è finita. Il vento carezza

l’erba bionda. Tiepido, bacia con

tenerezza feroce la bocca di Ade.

 

In ricordo della tragedia dell’Hotel Rigopiano

 sull’Appennino abruzzese

gennaio 2017

 

 

 

scarica la locandina dell’evento 

Alcune foto dell’evento

One comment

  1. Annalisa ha detto:

    Spero che l’iniziativa prosegua coinvolgendo pubblico, poesti e scrittori. I testi qui raccolti, oltre la bellezza della poesia, sono a mostrare la varietà dei ricordi, la stratificazione su cui si costruisce e si compie il cammino dei presenti. Complimenti per essere riusciti a portare a compimento con successo questo progetto. Buon proseguimento

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