Rinaldo Caddeo, Dialogo con l’ombra, La Vita Felice, Milano, 2008.
Giorgio Linguaglossa
Sapevamo che la ricerca poetica di Rinaldo Caddeo si era da sempre orientata in direzione di una nuova dis-locazione dell’oggetto-poesia e di una pronuncia del discorso poetico aggiornato ai tempi e ai modi di comunicazione della nuoca civiltà mediatica. Ciò, appunto, nell’ambito di un vasto quadrante di ricerca che attraversa trasversalmente e longitudinalmente la poesia contemporanea tesa a ricercare nuove e più solide basi sulle quali porre le fondamenta di un discorso poetico accessibile ai presunti lettori delle nuove generazioni.
Disdette e dismesse le posizioni di poetica che eleggevano un quotidiano e una cronaca e di qui procedevano in direzione di una oggettistica e di una figuralità poetica, Rinaldo Caddeo ha scelto di dislocare tra le anticaglie la procedura operativa ed ermeneutica della riduzione delle problematiche ad un minimo comun denominatore, invalsa in alcune propaggini epigoniche di area romana e lombarda, per introdurre il suo discorso poetico sulle solide fondamenta di una procedura metaironica. La adozione di questo impianto costruttivo ha come conseguenza sul piano stilistico l’assunzione del traslato quale figura retorica dominante della sua poesia. Il tratto distintivo di questa posizione di poetica è l’ipotesi di uno scarto, di una differenza di statuto rispetto alle posizioni che prevedono un «messaggio», ovvero un «destinatario», un «pubblico» purchessia; una sfiducia nelle possibilità della poesia nelle nuove condizioni poste dal villaggio globale della comunicazione mediatica.
Intendo dire, in altre parole, che se il minimalismo vuole procedere attraverso la riduzione delle problematiche dicibili in poesia al fine di raggiungere e conservare il proprio seppur ristretto uditorio, ovvero, il proprio pubblico, il contro movimento naturale delle nuove posizioni di poetica si indirizza piuttosto nella «nuova» formulazione dei propri presupposti di poetica e nei «nuovi» metodi di ricerca. L’assenza del «messaggio» fonda il presupposto della poetica di Rinaldo Caddeo, questo mi sembra un dato di fatto assolutamente inconfutabile («quale messaggio/ mi mandi da tanto tempo// con tanta foga/ ma che io non prendo?// e se ti sfuggo mi corri dietro/ se mi giro ti giri avanti// sento che gridi/ ma io sento solo silenzio»); in seconda istanza, l’ossessione dello sguardo: la necessità di uno sguardo parallattico e acuminato che vivisezioni il «reale», che funga da cono di luce che investe gli oggetti; in terza istanza, il procedimento all’incontrario, il movimento che dall’esame dell’effetto ci conduce alla causa.
E quindi dall’ombra ai corpi. Dialogo con l’ombra è propriamente un «elogio dell’ombra», ma non in chiave metafisica come nell’omonima opera di Borges, quanto nella chiave laica e disincantata, direi post-moderna, della poesia del poeta milanese. È la procedura metaironica che consente al poeta milanese l’accantonamento, per buona parte del libro, dell’io, o meglio, la definitiva liquidazione di ogni «ingenua» credenza di coincidenza e sovrapposizione tra l’io poetico e l’io dell’autore e l’adozione di una dis-locazione dell’io poetico dall’io, l’accettazione di una deviazione, di una differenza non più dissimulabile e sempre più ingombrante e vistosa: di qui la problematica del doppio e del sosia, dell’oscurità dell’ombra, della sua presenza ineludibile.
Se nella parte iniziale del libro è l’io poetico che interroga l’ombra, nella parte centrale finale le cose cambiano. Nel «V Atto: I quattro elementi», l’io diventa «voce plurale», come rileva nell’acuta prefazione Gabriela Fantato, oppure, come nel «II Atto: Breve storia di ombre», è «l’io disperso» che entra nella luce dei riflettori dello sguardo indagante dell’io poetico: nelle poesie «L’ombra di Amleto», «Peter Schlemihl», «Il fu Mattia Pascal»; così come nel «III Atto: Ombre della storia», sono «Pompei», «Hiroschima», le città distrutte dal fuoco degli elementi e dal fuoco degli uomini che continuano a parlarci, ad inviarci il loro messaggio assente, del loro essere forma inconsapevole, del proprio essere gesso «dell’ultimo respiro/ con l’ultimo gesto». Fino a giungere all’ultima poesia del «IV Atto: Anima», intitolata «Stranieri», un vero capolavoro di procedura metaironica: «sono arrivati gli stranieri/ sono sbucati da tutti gli angoli// sono sbarcati da tutti i lati/ non chiedono da mangiare// o da dormire: a loro non interessano/ le cose nostre: abiti case// lavoro idee/ forse non ci vogliono// neppure uccidere o depredare/ loro vogliono vedere// le forme che abbiamo toccare/ le impronte che lasciamo…».
La sezione finale «L’Epilogo» contrassegna il punto più alto del climax derisorio e graffiante del libro con quella «Preghiera del mattino» che scandisce i tempi e i modi della preghiera laica nella ultimissima versione del non-credente in niente: «dacci la nostra ombra quotidiana/ non ridurci a destinazione// liberaci dalla tentazione/ di un contatto troppo stretto con le cose// e con le persone metti la giusta/ distanza tra noi e la luce// non chiederci un assegno a vuoto/ sul valore del mondo…»