«Ho sempre paragonato ciò che ci è successo a un naufragio. All’improvviso si perde tutto, ci si trova sbalzati nell’acqua scura e profonda. Può succedere che il disastro sia annunciato dalla tempesta, ma ci sono anche le falle improvvise, gli iceberg, le orche. Se quello di mio padre fu un naufragio ipotizzabile, basta andare a ripercorrere i fatti di questi giorni, ci sono drammi improvvisi e non prevedibili, come accadde con Ezio Tarantelli o Massimo D’Antona.» (p.84).
Figlio del commissario Luigi Calabresi, Mario Calabresi scrive un libro-testimonianza su di sé, sul padre e sulla sua famiglia. Saggio e romanzo, sulla memoria, in cui l’evento catastrofico del naufragio, l’assassinio del padre, irrompe sulla scena della vita e cambia tutto. Il naufragio non è solo una metafora di una condizione esistenziale, di una declinazione irregolare del male di vivere, ma il punto di partenza e il centro di gravità del libro, che s’iscrive nell’orizzonte dei naufragi che scandiscono, implacabili, le vite degli abitanti del secolo breve. Non a caso, il libro preferito da questo ragazzo che diventa adulto, è la storia paradigmatica di un naufragio, il Robinson Crusoe di Defoe, libro di formazione per molte generazioni, vicenda esemplare della civiltà europea e non solo. Libro non di morte, però, ma di vita. Narrazione che non si sofferma sull’evento del naufragio ma descrive, in un esperimento squadernato, giorno dopo giorno, sotto il nostro sguardo, la lotta vittoriosa di un uomo per vivere su di un’isola deserta, in condizioni estreme, sfruttando i frantumi del naufragio della sua nave e le risorse, non disponibili come su di un banco del supermarket, di una natura selvaggia. E per chi è stato vittima di un naufragio, Robinson Crusoe diviene un esempio utile da seguire. Questo, a mio parere, è il messaggio morale e politico del libro di Calabresi, valido per noi tutti, naufraghi (chi più, chi meno), dei cambiamenti (anche vantaggiosi) e dei disastri (immancabili) del ‘900.
Un libro indispensabile perché colma una formidabile lacuna, dando luce a una vasta zona d’ombra: la memoria delle vittime del terrorismo, terrorismo degli anni di piombo, ma non solo quello (ma quanti terrorismi ci sono stati e ci sono in Italia e nel mondo, prima ancora dell’ultimo terrorismo, quello che sembra più efferato, perché colpisce hic et nunc, quello islamico?).
Libro doloroso ma nello stesso tempo animato da una gioia di essere vivi e di vivere che oltrepassa la novecentesca, epifanica allegria di naufragi, per rispondere a un’istanza razionale di lotta per la verità e nello stesso tempo di tolleranza e di convivenza con gli altri che affonda le sue radici nell’illuminismo (non a caso Defoe e mi verrebbe voglia di aggiungere una certa aura non velleitaria, un respiro narrativo che non sottrae alla serietà una garbata ironia, da Candide di Voltaire).
Un libro drammatico ma catartico che si legge avidamente perché costruito con i dettagli, dato che sono «i particolari a tenere viva la memoria, i ricordi pieni, vissuti e non la prosopopea.» (p.87).
Un libro di anamnesi, che ricostruisce con laconica esattezza il peggiore passato per un futuro migliore, che si prende il gusto di rovesciare gli schemi e i loci communes delle forme della politica e delle forme della memoria, con i suoi inganni e le sue trappole.
rinaldo caddeo