I poeti di Gaccione – Adam Vaccaro
Angelo Gaccione, Poeti – Ventinove cavalieri e una dama,
Di Felice Edizioni, Martinsicuro, 2025
Adam Vaccaro
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Articolo già apparso sul Giornale d’Italia, il 6 marzo e su Odissea del 9 marzo 2025 – seguono i link relativi:
https://www.ilgiornaleditalia.it/gallery/cultura/687640/angelo-gaccione-ritorno-alla-poesia-con-la-pubblicazione-di-poeti-ventinove-cavalieri-e-una-dama-per-la-di-felice-edizioni.html
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https://libertariam.blogspot.com/2025/03/i-poeti-di-gaccione-di-adam-vaccaro_9.html
Il J’accuse di Adam Vaccaro – Francesco De Napoli
Dopo la I Parte – vedi a https://www.milanocosa.it/saggi-poesia/il-jaccuse-di-adam-vaccaro-francesco-de-napoli – segue la
II Parte del saggio di Francesco De Napoli, dedicata specificamente a Trasmutazioni – Alchimie in Caoslandia
(2024, puntoacapo Ed.)
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IL SOFFERTO J’ACCUSE DI ADAM VACCARO
IN UN MONDO DI PERVERSI ANTROPOIDI
Francesco De Napoli
II PARTE
IL POEMA DELLA DISPERAZIONE E DELLA RIFLESSIONE “TRASMUTAZIONI – ALCHIMIE IN CAOSLANDIA”
Nel 2024 Adam Vaccaro pubblica una nuova raccolta, “gemella” di Google – Il nome di Dio. Si intitola “Trasmutazioni – Alchimie in Caoslandia”, nella quale le tematiche affrontate si presentano dialetticamente e strettamente collegate con quelle della silloge precedente, ma con accenti lirici che mutano impostazione e prospettiva. Il poeta ha scaricato nella raccolta precedente tutto il suo rancore, la sua ironia, il suo disappunto. Ora alla passione e al risentimento si affiancano, fin quasi a sostituirli, la riflessione e la ponderazione. Nella Postfazione, Gabriella Galzio parla di sistole e diastole della poesia di Vaccaro. L’autore è consapevole che la poesia deve sforzarsi di costruire, non di distruggere. Certamente è possibile edificare anche attraverso la satira più feroce, ed è ciò che Vaccaro aveva realizzato in Google – Il nome di Dio. Ma ora è necessario raccogliere le schegge infrante d’una realtà irriconoscibile, cercare di riunirle e armonizzarle per contrastare l’infinita varietà di spurie manipolazioni perpetrate in un mondo in liquefazione. Nota John Picchione nella Prefazione:
“Vaccaro è guidato da una poetica radicata nella consapevolezza che la disintegrazione temporale e la crisi dei grandi racconti, legate alla nostra tarda modernità, rappresentano due poli di una medesima condizione storica. Ne consegue una poesia che nel suo macrotesto mira a restituirci la possibilità di rielaborare un metaracconto dei nostri tempi e di avversare lo sbriciolamento e l’indebolimento delle versioni del mondo. (…) Al dissolvimento di un obiettivo umano diretto a medicare le ferite della Storia, Vaccaro propone mappe conoscitive, etiche e politiche per restituirci un orientamento e ravvisare segnali di liberazione.”
Come Google, anche Trasmutazioni è suddiviso in quattro Parti: Frane quotidiane – Cosa senza Nome; Pietre senza Luna – Nel macero della Storia; Sassi volanti – Davide senza Golia; Pietre miliari – Memorie e Visioni.
La Prima Sezione mette a nudo con uno sguardo non più giustizialista – ma sempre estremamente severo – i falsi miti della modernità, che poi altro non sono che le sciocche credenze in cui l’umanità affoga da sempre: dall’“altare del fuoco acceso” dei templi pagani e cristiani ai “deliri di conquista”; dal bruco di “Alice nel Paese delle Meraviglie” alla “Cosa” (è ancora la poesia?) “che carezza e consola” nonostante la latitanza dell’atteso “godot rimasto irridente nel nulla”; dagli “Eroi quotidiani” che si nutrono della “Cultura del brutto” al “Regno D’Io” da cui “s’alzano nere colonne/ di fumo d’anime consunte” sulle quali fluttua “l’ala gelida del male”, mentre “i cancelli del Cielo” hanno perso ogni credibilità e “arrugginiscono nel loro/ caduco arzigogolo”.
La Seconda Sezione tratteggia con superiore acutezza e senza eccessivo livore le macabre carnevalate di quanti “parlano di guerra come fosse / un torneo di calcio”, inoltre dipinge un ritratto nuovo di zecca del “Dottor Stranamore 2022” sulla cui groppa cavalcano “trionfalmente / allegri (…) ignari” – soprattutto incoscienti – ciurmaglie di invertebrati incapaci di vedere “in fondo la luce dell’Apocalisse”.
La Terza Sezione sembra rievocare in diverse liriche la primigenia saggezza dei filosofi e poeti presocratici, quel sapere istintivo e ingenuo su cui fu edificata la cultura dell’antichità classica. È l’insuperabile patrimonio di valori che per Adam Vaccaro è fondamentale per cercare di individuare l’originaria sapienza umanistica, e insieme scientifica, della storia della civiltà. Questo perché nell’Umanesimo delle origini era tenacemente radicata una componente esistenzialistica. Nell’antica filosofia greca l’osservazione e la meditazione sul significato dell’esistenza erano inseparabili da una concezione etica e umanistica del mondo.
Era un esercizio collettivo basato sull’osservazione della realtà che tendeva a ridimensionare le credenze sul mito per sviluppare un pensiero razionale, ancorato alla realtà antropologica e naturalistica. Ciò accadeva nonostante che i miti greci fossero l’espressione genuina, spontanea e diretta di quella cultura primordiale.
In un’epoca in cui la menzogna viene elevata a verità e la sopraffazione è la regola, il crollo di qualsiasi ideale positivo è un fatto compiuto e quasi irreversibile. Oggi i manipolatori del pensiero s’inventano a tavolino falsi miti (Harry Potter, Batman, Capitan America, ecc.) assolutamente sganciati dalla realtà concreta, che vengono imposti su masse composte da soggetti psicolabili.
In “Armi di distrazione” Vaccaro affronta la questione con tagliente fermezza: “(…) sei libero e felice di/ scegliere tra i/ mille canali/ dove/ affogare/ nel vuoto/ di ogni idea/ d’un pensiero/ drone d’una mano/ avida di telecomando/ tra supereroi e serialkiller/ poliziotti machi e criminali (…)”.
Ricordiamo che una delle maggiori opere filosofiche del Novecento, firmata da Jean-Paul Sartre, si intitola: “L’esistenzialismo è un umanismo”. È questa la vera Cultura che gli antropoidi del Terzo Millennio avevano ereditato senza minimamente apprezzarla né meritarla, ragion per cui l’hanno calpestata e rinnegata con colpevole faciloneria.
In questa Terza Sezione ci imbattiamo in “La Mano e il Sasso”, un distico perfetto. È un capolavoro di immediatezza poetico-creativa. Leggiamo: “nel volo di un sasso cogli la mano e/ nel suo brillio la memoria dell’acqua”.
Notevolissimo anche “Sassi e Scale”, un frammento poetico leggermente più articolato che si avvale d’una costruzione metrica più ampia, ma sempre racchiusa nell’orbita del discorso precedente: “Se un sasso/ ferisce il tuo passo/ tu fanne canto momento/ e moto teso a un salto più alto”.
Cosa intende dirci Vaccaro attraverso versi così scabri e nudi? Le immagini del “sasso” e dell’“acqua” simboleggiano la primitività dell’essere e della nostra stessa vita. Il poeta lancia un segnale preciso: la prospettiva di un “salto più alto” si pone come umile auspicio, esortazione al recupero degli strumenti primordiali e antichissimi che consentirono all’umanità di progredire. È illusorio pretendere di spingersi oltre utilizzando meccanismi informatici sempre più sofisticati. Il pianeta Terra non è in grado di sostenere ad oltranza l’attuale sperpero di energie e di risorse al servizio di un consumismo sfrenato che sta appestando terra, aria e acqua, e da cui trae beneficio una piccola cerchia di privilegiati.
La Quarta Sezione rappresenta l’epifania finale. È un affranto j’accuse appena mormorato, l’estremo e sommo canto di decantazione del perenne incubo/sogno del quale gli esseri umani sono, ad un tempo, gli artefici e le vittime. È la condizione comune di fatale alienazione che lega indissolubilmente passato, presente e futuro, minando alle radici il raggiungimento d’un vero e duraturo progresso civile e culturale. La poesia intitolata “Trasmutazioni” – che dà il titolo alla raccolta – chiarifica i legami, e insieme le fratture insanabili che avvinghiano eppure dividono – in maniera sempre più folle e stridente – l’impasto di allucinazioni, ambizioni e angosce da cui l’umanità è morbosamente affetta. Scrive Adam Vaccaro:
“La vita è a volte così amata, amore mio,/ che ti versa qui gocce di falsodolce/ di prove di miracoli folli di/ trasmutazioni d’alchimista/ alla ricerca di nomi a cose esistenti/ così resistenti, ma solo in sogni d’Icaro/ d’ali impossibili d’umano”.
In questi versi troviamo tutto ciò che conta veramente, vale a dire la condanna di qualsiasi chimera e superstizione, dai miracoli su cui è costruito il potere temporale delle gerarchie sacerdotali alle moderne ali d’Icaro (le astronavi di ultima generazione) di cui magnati come Elon Musk intendono dotarsi per dominare non solo la Terra ma l’intero Universo.
Alle sfrontate e grandiose messinscene che i potenti di turno danno in pasto a un servitorame sempre più inebetito, il Poeta contrappone alcune sequenze di vita vera forse possibili ancora per poco: l’apina che “volava felice di fiore in fiore” pur temendo il ronzio del calabrone che la inseguiva; il piccolo Pierino che “tra pozzanghere e ciuffi d’erba/ (…) credeva/ ancora in quello che vedeva e sentiva”; infine “quei tram verdi/ degli anni sessanta, sogni di una libertà/ priva di colori (..)/ bastava quel verde/ un po’ serioso e composto come la speranza/ che cresceva forte in noi (…)”.
Siamo di fronte a memorie struggenti di vita vissuta che si mescolano con i flash apocalittici d’un presente surreale ed estremamente funesto. È ormai indubitabile che il genere umano – malato di una “illusione resistente di immortalità” (in “Verginelle”) – ha toccato il fondo: “Sta cambiando la terra sotto i piedi / Fratello”, leggiamo in “Frantumi”.
Adam Vaccaro non ha perso, tuttavia, l’ultima speranza. Egli si rivolge a sé stesso – e nel contempo ai “piccoli uomini-zattere” di Caoslandia –, levando una folgorante supplica che è anche un monito. L’umanità rischia di estinguersi e insieme con essa la vita sulla Terra, ma ancora esiste una minima possibilità di salvezza.
Questa speranza di salvazione potrà venire soltanto grazie alla Cultura e alla Poesia, cioè grazie ai supremi valori dell’Umanesimo. In un giorno non lontano, forse, il terrore d’un universale flagello darà voce a “parole che non sai/ se scendono o salgono lucide come/ attesi sapienti inascoltati nel loro canto (…)” (da “Perle”). Saranno rinnovate “perle sapienti di salvezza”, poiché a parlare sarà l’innocenza e il candore dei poeti, da sempre umili e dimessi come “anime accese fuori/ dalle cloache (…) tra cielo e terra” (da “In questo Fiume”).
Per un mondo di fratellanza e di pace.
Il J’accuse di Adam Vaccaro – Francesco De Napoli
Un’analisi profonda del poeta e saggista, Francesco De Napoli, animatore culturale di Cassino e del Basso Lazio, che – attraverso la lettura degli ultimi libri: Google – il nome di Dio e Trasmutazioni – ricolloca nell’ambito storico-sociale degli ultimi decenni l’azione poetica e critica di Adam Vaccaro.
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IL SOFFERTO J’ACCUSE DI ADAM VACCARO
IN UN MONDO DI PERVERSI ANTROPOIDI
Francesco De Napoli
I PARTE
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IL QUADRO GENERALE AGLI ALBORI DEL TERZO MILLENNIO
In Italia e, contestualmente, in altri Paesi del mondo, tutto ebbe inizio negli anni in cui fu liquidata, con un colpo di spugna, la Prima Repubblica. A ragion veduta, è da credere che sia esistito davvero, e che esista tuttora, una sorta di “complotto globale” – magari scalcinato ma abbastanza funzionale allo scopo, come nelle vignette di Sturmtruppen di Bonvi – pilotato dai poteri occulti del Pentagono e di altre lobby sommerse degli Stati Uniti. Nel 1989 Achille Occhetto e Giorgio Napolitano compirono uno stranissimo – anzi misterioso – viaggio a Washington, dove furono ricevuti in separata sede dapprima dal miliardario Edgar Bronfman capo del Congresso Ebraico Mondiale, quindi da Henry Kissinger e infine addirittura da David Rockefeller. Qualche mese dopo il PCI fu sciolto.
La nuova “sinistra” nata dalle ceneri del PCI cancellò istantaneamente qualsiasi traccia del proprio passato marxista e gramsciano, per abbracciare una politica gradita alle spudorate tecnocrazie che già allora imperversavano in Occidente e nell’Unione Europea. In Italia Veltroni, D’Alema e Bersani appoggiarono senza pensarci due volte dei governi liberal-conservatori come quelli di Ciampi, Dini, Prodi, Monti, Letta, Draghi e altri. La motivazione ufficiale era contrastare l’oligarca e imprenditore Silvio Berlusconi, ma in realtà gli esecutivi di cui fece parte il neonato Partito Democratico della Sinistra erano tutti di tendenze moderate e centriste, tant’è che la maggior parte delle privatizzazioni fu realizzata dai governi presieduti da Romano Prodi.
Con la fine della Repubblica fondata dai Padri Costituenti era comparsa all’orizzonte l’ombra funesta del padrino/predone Berlusconi affiliato alla P2 e in odore di mafia, forte d’uno smisurato potere mediatico capace di oscurare senza pietà le altre emittenti televisive. Il crollo, più che politico, fu pertanto di tipo socio-culturale. Venne stravolta e soffocata sotto montagne di falsità e denigrazioni la letteratura dell’“impegno” che era stata il cavallo di battaglia degli eredi di Antonio Gramsci e che aveva contribuito a formare una coscienza di classe tra i lavoratori. Furono tacitamente messi all’indice i grandi capolavori del cinema neorealista e di protesta – pensiamo a maestri come Francesco Rosi, Elio Petri, Giuliano Montaldo, Pier Paolo Pasolini, Damiano Damiani -, che dal dopoguerra in poi avevano educato intere generazioni ai valori della giustizia, della fratellanza e dell’uguaglianza.
Anche “Tangentopoli” fu un pretesto per fare piazza pulita dei personaggi scomodi che, in un modo o nell’altro, si riallacciavano agli ideali dell’antifascismo e della Resistenza. Basta pensare che il bottino complessivo accumulato dai ladroni di “Tangentopoli” non superò i due miliardi di lire (circa un milione di euro), mentre oggi vengono rubati – tra appalti pilotati e finanziamenti occulti – ogni giorno decine di milioni di euro senza che nessuno faccia obiezione.
I magnati mondiali dell’alta finanza – con il tacito assenso di politici compiacenti e corrotti – avevano iniziato già da tempo a parlare in pubblico, sempre più diffusamente, della necessità di un “nuovo ordine mondiale”, per giungere al quale il primo passo da compiere era riconoscere e accettare la totale “globalizzazione” dei mercati. Con lo scioglimento dell’Unione Sovietica era finita la “guerra fredda”, e in molti Paesi – ivi compresa la Russia – avevano preso piede nuove forme di nazionalismo reazionario tutte collegate, in un modo o nell’altro, con la piovra capitalistica dell’Occidente. Perfino la Cina, che ufficialmente esalta ancora il Partito Comunista, è parte integrante non soltanto dei mercati e dei commerci mondiali, ma della stessa catena di produzione di beni di consumo commissionati dai grandi marchi degli Stati Uniti e d’Europa. La logica degli scambi finanziari impose di realizzare delle tacite alleanze sovranazionali che garantissero e rafforzassero equilibri affidabili sia per la Borsa che per i vari “sovranismi”, vista la loro multiforme e instabile consistenza. I Paesi rimasti fuori da queste coalizioni furono destinati all’isolamento e a un inesorabile declino. Da tutto ciò nacque una “piovra” dai mille tentacoli al servizio del Dio danaro, un mostro gigantesco più attivo e possente che mai.
Oggi in Occidente le istituzioni parlamentari sono degenerate al punto da somigliare sempre più ai regimi totalitari sudamericani: sono finte democrazie che non interpretano più i bisogni della collettività, bensì si prefiggono di tutelare sfacciatamente gli interessi dei “poteri forti”: banche, lobby, alta finanza, mafie, imperi mediatici.
C’è da dire che già agli inizi del Novecento aveva cominciato a diffondersi tra gli uomini di cultura più sensibili e attenti la netta sensazione che qualcosa di molto pericoloso e opprimente stesse per verificarsi. Nel mondo soffiavano i venti di guerra di ben due conflitti mondiali, ma c’era dell’altro. L’allettante prospettiva d’un “nuovo ordine mondiale” era alimentata dalle nuove scoperte scientifiche e tecnologiche, che invogliavano le masse a idolatrare l’aura fascinosa dei maggiori luminari della tecnologia e della scienza, descritti come Superuomini di nietzschiana memoria. Nello stesso tempo, si andava radicando tra i lavoratori la perdita d’una propria “identità di classe” che induceva ad approvare le regole e i metodi del corporativismo fascista e nazista, laddove covava il delirante germe del disprezzo nei confronti dell’uomo della strada considerato alla stregua d’un miserabile granello di sabbia in balia degli eventi.
Quel nichilistico clima di follia collettiva aveva ispirato già sul finire dell’Ottocento non pochi saggi e romanzi di fantapolitica e di fantascienza, volti a ritrarre realtà distopiche in contesti sempre più inquietanti. Quel filone si arricchì nel secolo successivo di opere ancora più ardite e coinvolgenti. Ne cito alcune tra le più significative:
“Guardando indietro 2000-1887”, di Edward Bellamy, un successo mondiale edito nel 1888, che Erich Fromm definì “uno dei più importanti libri mai pubblicati in America”; “Il tallone di ferro” (1908), di Jack London; “Noi”, di Evgenij I. Zamjatin, scritto tra il 1919 e il 1921 e pubblicato postumo in Russia nel 1988; “Cuore di cane” e “Uova fatali” (entrambi del 1925), di Michail A. Bulgakov; “Il mondo nuovo” (1932) di Aldous Huxley; “La vita è nostra” (1938) di Ayn Rand; “1984” (1949) di George Orwell; “Fahrenheit 451” (1953) di Ray Bradbury; “Il complotto contro l’America” (2004) di Philip Roth. In Italia furono pubblicati dossier romanzati come “Petrolio” di Pier Paolo Pasolini, scritto tra il 1972 e il 1975 e pubblicato postumo, incompiuto, nel 1992. Né vanno dimenticati i tanti romanzi di Leonardo Sciascia sulle collusioni tra mafia, politica, finanza e spionaggio internazionale, come il superlativo “L’affaire Moro” (1978). Questo perché i grandi capolavori del pensiero posseggono una spiccata valenza premonitrice, in grado di prefigurare eventi futuri a lunghissimo termine.
Dal Lazzaretto – Luigi Cannillo
Dal Lazzaretto di Luigi Cannillo: Memoria e Identità in Versi.
Nota critica di Valeria Serofilli
Luigi Cannillo, con Dal Lazzaretto, pubblicato da La Vita Felice, offre ai lettori una raccolta poetica densa di significati e stratificazioni temporali, in cui passato e presente dialogano costantemente attraverso la parola poetica. Il Lazzaretto di Milano, celebre per la sua risonanza letteraria ne I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, non è solo un riferimento storico, ma diviene il fulcro di una riflessione più ampia sulla transitorietà dell’esistenza, sulla persistenza della memoria e sulle trasformazioni urbane e sociali.
L’autore si muove tra il dato storico e la dimensione personale, intrecciando il ricordo della Milano della sua infanzia con la coscienza di un passato più remoto, che ancora sopravvive negli spazi cittadini e nei suoi mutamenti. Cannillo non si limita a restituire un ritratto nostalgico o meramente descrittivo della città e del suo simbolico Lazzaretto, ma costruisce una poetica che è al tempo stesso evocativa e meditativa, capace di dare nuova vita a ciò che sembra destinato all’oblio.
Il Lazzaretto, luogo di reclusione e sofferenza durante le epidemie, si carica nella raccolta di una valenza più ampia: da spazio fisico si trasforma in un locus della memoria e dell’identità, un simbolo della fragilità umana e della sua capacità di resistere. Come nel Manzoni, questo luogo diventa il teatro di una dualità fondamentale: da un lato, il dolore e l’isolamento; dall’altro, la possibilità di riscatto, di salvezza e di riconciliazione con il passato.
Cannillo lavora su questa ambiguità attraverso immagini che mescolano luce e ombra, presenza e assenza, vita e morte. La memoria, in Dal Lazzaretto, non è mai solo rimpianto, ma una stratificazione di significati che continua a vivere nella città e nei suoi abitanti. In tal senso, si può leggere la poesia Figure in posa sulla spianata, in cui il poeta osserva il paesaggio urbano e ne coglie le trasformazioni nel tempo, facendo emergere un senso di continuità tra ciò che è stato e ciò che resta:
Anticipazioni – Danila Di Croce
Anticipazioni
Vedi a: https://www.milanocosa.it/recensioni-e-segnalazioni/anticipazioni
Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa
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Danila Di Croce
Inediti
Con nota di lettura di Adam Vaccaro
Nota di poetica
“Quello che cerca col suo bastone / il cieco è la luce, non la via” (Hugo Mujica). E io procedo a tentoni, non sapendo bene nemmeno dove mi trovo, perché il cammino con la poesia può prevedere soste lunghissime o svolte improvvise ed è così multiforme da lasciare attoniti.
C’è tuttavia una sete da interrogare, anzi da tenere ben viva. E bisogna fare i conti con una cecità che si appoggia a qualcosa di tanto esile e leggero, da tenere in mano, però, come un sostegno prezioso. Cosa fa la poesia, se non affiancarsi al mio passo vacillante che si illude di intraprendere una via, quando invece è alla luce che chiede dimora? E lei, dritta e ferma nel suo inconoscibile intento, non si piega sotto il peso delle mie esitazioni. Continua a sostenere che andare è il verbo degli occhi.
La Collana Viola – Francesco De Napoli
Francesco De Napoli
La Collana Viola E L’epistolario Pavese – De Martino
Centro Culturale “Paideia”, Cassino 2008
Adam Vaccaro
Propongo la rilettura del prezioso saggio del 2008 di Francesco De Napoli, a commento della pubblicazione di Bollati Boringhieri, Torino 1991, “Cesare Pavese – Ernesto de Martino, ‘La Collana Viola, Lettere 1945- 1950, a cura di Pietro Angelini, sul carteggio tra i due condirettori della storica Collana di Giulio Einaudi, “la prima collezione di studi etno-antropologici e religiosi apparsa in Italia”, dedicata ai miti e alle pratiche esoteriche di società primitive.
L’interesse del saggio di De Napoli è accentuato dalla sua impronta, tesa a focalizzare non solo le consonanze e differenze tra i due protagonisti, ma di collocarle nella temperie culturale dell’Italia di allora, tra personalismi, tentativi coraggiosi di uscire dai limiti culturali e politici, e condizionamenti ideologicamente chiusi, nell’area di destra, come in quella di sinistra, rispetto a ricerche anomale e innovative.
Poche le personalità che si distinsero e si attivarono in tal senso, tra le quali si collocava ad esempio sia quella di Elio Vittorini, sia in modi diversi, per la specifica sensibilità poetica e fragilità, anche Cesare Pavese. Il saggio ripercorre le varie fasi in cui si svolse il rapporto tra due personalità, napoletano de Martino e piemontese Pavese, lontane sia geograficamente, ma soprattutto con tensioni mentali e culturali totalmente differenti: il primo con passioni, ambizioni e contraddizioni non esenti da calcoli venali, il secondo con orizzonti culturali immersi in un humus di tormenti esistenziali, da cui non riuscì ad affrancarsi, tanto da sfociare poi nel suicidio del 1950.
Fegato in cartolina – Rosanna Frattaruolo
Rosanna Frattaruolo
Fegato in cartolina – je vais te dire un secret
Il Convivio Editore, 2024
(Primo premio silloge inedita Concorso Guido Gozzano 2024)
Margherita Parrelli
È labirintico questo ultimo lavoro di Rosanna Frattaruolo, ma il punto è che ci si trova dentro senza essersi accorti di esserci entrati, almeno così è stato per me.
Inutilmente ho ripercorso la strada a ritroso, seguito la numerazione romana da I a XXXIV dei componimenti che, ingannevolmente, potrebbero sembrare il testo principale, le cartoline inviate da nord a sud, da est a ovest dell’Italia, gli innesti fotografici che portano il nome di organi del corpo e appaiono improvvise in alto a destra, in alto a sinistra e poi scompaiono altrettanto improvvisamente e soprattutto inspiegabilmente.
Inspiegabilmente sono riuscita ad attraversare il libro di Rosanna e, nonostante il senso di smarrimento al quale la mia natura ordinata sempre istintivamente si oppone, sono giunta non alla fine ma altrove.
In questo altrove ho dimenticato la mia irritazione che chiedeva: dimmi dove mi porti, fammi capire, e ho cominciato a fare quello che l’autrice fa a pagina 23: “come lui (il poeta russo Chodasevic) ho ballato sulle punte/ poi sono inciampata nelle parole”.
Sì bisogna saper inciampare nelle parole per seguire Rosanna in questo suo viaggio poetico e lasciarsi andare alla scoperta che sta dietro ogni inciampo, che ne è la causa involontaria.
E Rosanna ha una capacità incredibile di trasformare l’inciampo in occasione, in approfondimento, in ricerca del senso, in perdono e distacco, in rincorsa e abbandono.
Si sente l’urgenza del suo dire, ne trasudano i suoi versi, la loro corporeità che non è materiale, ma materica fatta di ossa, carne, organi, sensi, emozioni, di un certo malinconico distacco che nasconde la forza del sentire, come qui: “mi pare di camminare su zucchero di canna oggi/ la dolcezza ha sempre un prezzo/ la dipendenza da saccarosio è scientificamente provata/ voglio morire obesa d’amore”.
Credo di aver capito il segreto che volevi dire, Rosanna, ma averlo capito, devo ammettere, non è così importante come credevo all’inizio. Al contrario sento che questa comprensione non mi piace affatto, per consolarmene mi dico: non importa se alla fine ho capito, forse non ho capito veramente, posso dimenticare, posso tornare al fastidio iniziale, alla spinta che Rosanna mi ha dato per lasciarlo andare e perdermi nella sua estate che dura fino a gennaio.
La poesia Resistente di Adam Vaccaro – Fabio Dainotti
Un articolo del poeta Fabio Dainotti, sulla Rivista scientifica siciliana Il Convivio, dedicato alla ricerca poetica di Adam Vaccaro, che richiama ultimi libri e testi inediti della prossima raccolta, Restituzioni.
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LA POESIA RESISTENTE DI ADAM VACCARO
Lettura dalle ultime raccolte e dalla raccolta inedita, Restituzioni
Fabio Dainotti
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Kolektivne NSEAE – Ivan Pozzoni
FURIE E FUGHE
In
KOLEKTIVNE NSEAE di Ivan Pozzoni
La malattia del «disinteresse» del lettore e l’ontologia estetica moderna della ipersoggettivizzazione
La terapia come eredità non-ontologica del Kolektivne NSEAE: la neoN-avanguardia
Adam Vaccaro
È un orizzonte di furie e fughe, diverse e innervate nella complessità contemporanea, che emerge da questo libro di Ivan Pozzoni, in un quadro di analisi che le designa e lucida entrambe a cera, cantate e accarezzate con una spazzola d’acciaio. Che scorre dalla groppa al deretano sul pelame arruffato di una gatta in calore. Un animale dall’anima multipla che miagola, ringhia e si veste da tigre, che forse non ti sbranerà, ma ti copre gli occhi di una patina, rosa o nera, su cui pianta unghie che li rendono ciechi, liberi di urlare, impotenti ma tendenti ad ammantarsi della pretesa di sapere, come il cieco che guida un cieco, della parabola poi soggetto del quadro di Pieter Bruegel.
Tiresia è stato ucciso e Diogene è senza lampada. E non c’è salvezza, né con me, né contro di me, pare avvertano i versi di Ivan Pozzoni. Ma se l’io/noi è/siamo col sedere per terra, è il momento dell’ora di ricreazione e del gioco o dell’ira e di tornare sul banco a scrivere a lettere cubitali sulla lavagna o su pezzetti di carta salvati dal tritatutto, i bisogni che cercano altro e oltre gli stracci ermetici e paleontologici, oltre le parole incazzate, i deliri egotici, fino alle molliche raccolte sotto un tavolo di lordi lardosi, che guidano la trottola del comando di radere a zero ogni residuo di senso, in ogni caso, in ogni casa? L’identità non esiste, al pari della società, dixit l’idiota bicefalo, impotente e onnipotente! Dopo di che, l’eccidio e la distruzione della polis, sono le matrici matrigne delle egolalie masturbatorie in tutti i campi, compresa la poesia.
Intanto il Dottor Stranamore fabbrica e dispensa milioni di bombe, predica pace e ride a crepapelle, idiota criminale che pensa di salvarsi su Marte, volando sulle sue Aquile libere nell’iperuranio sopra il cielo di piombo. Mentre Colombe libere e ammassate sotto tonnellate di putridume sospeso, sono ammazzate come mosche cieche, inferocite e rintontite da un subisso di immagini, estasi drogate e parole di niente, creatrici di rostri, che diventano mostri di una fame infinita di libertà dal destino di una progenie antropofaga.
Poi c’è l’altra fuga, nell’ovatta della culla di un iperurarnio di parole innamorate di sé, di quella malattia che ho chiamato iperdeterminazione del significante, connivente della distruzione del senso. Poi c’è l’illusione di contrapporvisi con l’iperdeterminazione del significato, convinta di poter spiegare tutto, uccidendo la complessità di un dire che vuole dare nome alla complessità del mondo.
La prima malattia è diventata pandemia lungo il crinale parnassiano di significati rarefatti, persi nella nebbia di dire tutto e niente, che riducono il pubblico – come diceva Berardinelli, citato anche da Pozzoni – a rasentare lo zero, agli altri scriventi versi, in un circuito grottesco, inutile e autoreferenziale. In cui sguazzano felici, fino a teorizzare che l’arte, la poesia, devono essere inutili. Ma utilissime a vati desideranti e immaginari, affollati e ininfluenti, e perciò inesistenti nel corpo di una società già negata e disgregata, che urla affamata di voci che sognino e incarnino il bisogno di ricrearla.
Prova a rispondere Pozzoni a questo panorama di molecole gassose che si dibattono tra le pareti stagne di un bagno di stitici:
“LA TERAPIA COME EREDITÀ NON-ONTOLOGICA DEL KOLEKTIVNE NSEAE: LA NEON-AVANGUARDIA Il Kolektivne NSEAE (Nuova socio/etno/antropologia estetica) ha un’eredità non-ontologica derivata dalle neo-avanguardie millennials, lontanissima dalla ontologia estetica moderna. La NeoN-Avanguardia, da me fondata, cede – come ogni altra avanguardia – all’«ἀντίφράσις», all’«ironia» (Jacques Derrida), al «citazionismo», allo «straniamento» (Viktor Borisovič Šklovskij), alla «carnevalizzazione» (Michail Bachtin), al «mistilinguismo», al «dédoublement» e «vertigine che sfocia nella follia» (Paul De Man), alla grammatica generativa (Noam Chomsky), alla «sovversione/eversione» (anarco-individualismo stirneriano e della Post-Left Anarchy), all’«invettiva» (triade Villon/Brassens/De André) e all’estremo «impegno sociale» movimentista a tutela dei deboli e dei diseredati, con opposizione allo star system dei dominanti e dell’arte.” [p.13]
È dunque un libro-manifesto di guerra subita e di pace sognata, piena di lacrime asciutte e irrisioni clownesche, anche se non placano alcunché. Ma è già utile porre il problema, anche se è un chiodo ribattuto, come sopra accennato, da ormai parecchi decenni. Sia da Berardinelli, sia in modi diversi da costole lucide e critiche da certi estremismi della Neoavanguardia, quali, ad esempio, Antonio Porta. Pozzoni si pone lungo la stessa direttrice di ricerca:
“Preso atto della conclusione della krisis e della transizione dall’evo moderno al nuovo evo tardomoderno, ho riconosciuto l’urgenza del discorso sul cambiamento di «paradigma» storico ed estetico, dovuto al venire meno del senso teoretico dell’ontologia estetica moderna, e ammessa l’anacronisticità della NeoN-Avanguardia, movimento di krisis, ho deciso di fondare uno nuovo movimento non ontologico, il Kolektivne NSEAE (Nuova socio/etno/antropologia estetica), aperto a tutti i mille movimentisti neon-avanguardisti e a nuove menti in grado di captare il cambiamento di «paradigma» sociale ed estetico.” [p.13]
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